D’Alema, il ditino alzato della politica

D’Alema, il ditino alzato della politica

Venendo al mondo, Massimo D’Alema impartì gli ordini alla levatrice per il buon esito del parto. Poi, congedò la mammana con aria di sufficienza. Già dalla nascita sapeva tutto lui. Diventato comunista, sommò alla spocchia naturale quella ideologica e così ce lo ritroviamo.
Tanti si prendono per un padreterno. A Max è riuscito di farlo credere anche agli altri. Per recondite ragioni, è considerato il più intelligente, aperto e liberale dei politici di sinistra. Una sopravvalutazione diffusa soprattutto nel centrodestra. Chiedete a Fini, Berlusconi o un altro, quale avversario preferisce. Risponderanno unanimi: «D’Alema». Implorate di precisare, diranno: «È il più pragmatico, il solo con cui sia possibile stringere un accordo».
È una fantasia nata nel cervello di Giuliano Ferrara e proliferata nella file della Cdl. Da ex comunista, Giulianone si picca di conoscere gli ex compagni. Inspiegabilmente, si è convinto che D’Alema sia superdotato. Per anni ha insistito col Cav perché si accordasse con lui. Ogni volta, è stato un buco nell’acqua. Alle apparenti aperture, sono seguiti insulti da buttero: «Berlusconi è un disastro punto e basta»; «Berlusconi è l’apice in cui il sistema collusivo raggiunge la sua forma perfetta»; «Quelle di B. sono scemenze»; «Ha avuto anche sfortuna. Ma tenderei a dire che, più che averla, B. la sfortuna la porta». Questa è la farina del sacco di D’Alema. Francamente, non sembra un genio e neanche un tipo da frequentare.
Realista a parole, Max è nei fatti uno dei «sinistri» più partigiani. Ogni tanto sembra venirti incontro, ma davanti alle difficoltà ripiega. A chiacchiere ha fatto balenare mare e monti, il risultato è stato sempre un pugno di mosche.
I migliori ricordi dei berlusconiani su Max risalgono al 1997 quando guidò la Commissione per le Riforme costituzionali. C’era un accordo bipartisan su due punti. Dare una calmata ai giudici che facevano politica e trasformare la Repubblica da iperparlamentare in quasi presidenziale. Ci si ricamò sopra un anno. Non se ne cavò nulla proprio a causa di D’Alema. Appena le toghe si sentirono toccate, ringhiarono e il nostro eroe fece dietrofront all’istante. Idem col semipresidenzialismo dipinto dai cattocomunisti come un nuovo fascismo. Impaurito dagli uni e dagli altri, Max dimenticò le promesse e se ne lavò le mani.
Il valore che l’attuale ministro degli Esteri dà alla propria parola si è visto in febbraio con la crisi del governo Prodi. Nell’aula del Senato, durante la discussione per il rifinanziamento della missione afgana, il pilatesco diessino aveva detto: «Se mancano i voti, ce ne andiamo tutti a casa». Ossia: se il governo cade, si torna alle urne; in ogni caso, bocciata la mia proposta, io mi ritiro. I voti mancarono e il governo cadde. Tre giorni dopo l’Esecutivo era di nuovo in piedi e Max, scordarello come sempre, rimase avviticchiato alla sua poltrona alla Farnesina.
Da questo tronetto, D’Alema in un anno ne ha fatte più di Carlo in Francia. Si è preso come consulente sull’Afghanistan il dottor Gino Strada. Un ex katanghese della Statale di Milano, che considera «tagliagole» non già gli sgozzatori talebani ma il governo Karzai. È andato a braccetto per Beirut con un signorotto degli hezbollah che mentre si pavoneggiava con lui sognava la distruzione di Israele. Ha aperto a Hamas che da Gaza lancia missili sugli ebrei. Ha teso la mano alle Corti islamiche somale ispirate da Bin Laden. Tratta con Gheddafi per costruirgli gratis un’autostrada, in cambio del suo perdono per avere fatto della Libia una nostra colonia cento anni fa, in attesa di risarcirgli gli eccessi dei legionari romani nella Sirte. Con un simile statista, Francia e Inghilterra, che colonizzarono mezzo mondo, non avrebbero occhi per piangere.
Max è un tipo sussiegoso e intollerante che inalbera un paio di baffetti dietro i quali nasconde chissà quali complessi. È pieno di tic. Fino a qualche anno fa, gonfiava di continuo le gote come Boreo per soffiare sulle palme delle mani umide per il nervoso. A furia di dirglielo, gli hanno tolto il vezzo e ora si tira le dita, le stira e le scrocchia. Se parla con qualcuno lo considera senz’altro un imbecille e lo guarda con sarcasmo. Se quello osa fargli una domanda, alza esasperato gli occhi al cielo e stringe la boccuccia a becco. Poi risponde come farebbe un filosofo col ciuco impartendo una lezioncina semplificata per adeguarsi all’infimo cervello dell’interlocutore.
Da un tipo così ti aspetteresti che messo alla prova faccia grandi cose. Ma sono vent’anni che è in prima linea e non si ricorda di lui una sola cosa di rilievo. Somiglia in questo a Ciriaco De Mita, altro pavone inconcludente.
Tra il 1998 e il 2000, D’Alema è stato due volte presidente del Consiglio. Il suo primo atto fu coinvolgere l’Italia nell’unica guerra da mezzo secolo. Mandò l’Aeronautica a bombardare Belgrado senza autorizzazione del Parlamento al solo scopo di accreditarsi con le cancellerie occidentali che diffidavano di lui ex comunista. Il secondo exploit fu avallare la conquista di Telecom da parte di un avventuroso gruppo privato capeggiato da Colaninno, Gnutti e da Consorte, il leader del coop rosse. Tale fu il suo fervore nell’assalto che Palazzo Chigi venne definito «l’unica merchant bank (Banca d’affari) in cui non si parla inglese». Ironia sferzante e piena di inquietanti sottintesi, ma non sospetta poiché proveniva da un uomo di sinistra come Guido Rossi.
Max è un comunista integrale. Comunista è tutta la famiglia. Lo furono il padre e la madre. Lo è il fratello minore, Marco. Lo è la moglie, Linda Giuva.
Il ceppo dei D’Alema è di Miglionico nei pressi di Matera. Il padre Giuseppe, a lungo deputato del Pci, nacque però a Ravenna dove il proprio genitore era ispettore scolastico. Giuseppe fu in gioventù acceso fascista. Spinse lo zelo fino a denunciare al federale alcuni gerarchi che aveva sorpreso a banchetto mentre vigevano le restrizioni di guerra. Dopo l’8 settembre '43, passò, come tanti, nelle fila dei partigiani comunisti. Del Pci fu prima obbediente funzionario, poi parlamentare. Il partito lo sballottò su e giù per l’Italia. Il primogenito nacque a Roma, il cadetto a Venezia. La famiglia traslocò poi a Genova. Qui, frequentando le medie, Max chiese motu proprio l’esonero dall’ora di religione. «Sono ateo», dichiarò all’insegnante stupefatto. I compagni, meno evoluti di lui, lo canzonarono: «C’hai la muffa in testa». «Meglio della merda che c’è nella vostra», replicò il genietto. A dieci anni, in qualità di «pioniere d’Italia» (gli scout del Pci), fu incaricato di aprire a Roma il IX congresso comunista. Doveva tenere un discorsetto davanti a Palmiro Togliatti. «Vuoi che ti aiuti a prepararlo?», gli chiese il babbo. «Faccio da me», replicò il fenomeno. Venuto il giorno, salì sul podio e lesse sicuro le due paginette che aveva scritte. Il Migliore lo applaudì, spalancandogli un roseo avvenire.
Si iscrisse a Filosofia alla Normale di Pisa, l’università che fu di Giovanni Gentile e che era diventata roccaforte del Pci. Qui si legò a Fabio Mussi. Stavano sempre insieme e li chiamavano Cric e Croc. All’unisono, si fecero crescere i baffi. Mussi da foca, D’Alema da moscardino. Era il '68 e Max partecipò al casino universale. Fu fermato dalla polizia e processato in due occasioni: per un sit-in contro la visita del vicepresidente Usa, Humphrey, e un lancio di sassi a Capodanno contro i gaudenti che affollavano la Bussola di Forte dei Marmi. In un’altra occasione, bloccò dei binari, ma senza code poliziesche. Mise incinta Gioia Maestro, figlia di un docente comunista di Fisica, e il partito li costrinse a sposarsi. Un anno e mezzo dopo erano separati. Tra rivoluzione e alcova, il giovanotto non si laureò.
A 26 anni, Max fu messo alla testa della Fgci, i giovani comunisti. Con la scusa di rosicchiare terreno agli extraparlamentari, la insessantottì. I matusa del partito storsero il naso e Giorgio Napolitano lo spedì in Puglia a fare il segretario regionale un po' come si confinava in Sardegna. A Bari fu soprannominato Abatino per la puntigliosità. Poi, Spezzaferro perché, nervoso com’era, piegava con le dita i tappi delle bottigliette. In quegli anni, morì in un incidente d’auto la sua compagna, Giusi Del Mugnaio. «Sono un uomo finito», disse Max. Due anni dopo convolò a nozze con Linda Giuva, un’archivista foggiana, celebrante Walter Veltroni. Hanno due figli e fino a qualche anno fa un reddito di tremila euro al mese. Adesso l’Abatino ne paga 12mila solo per il mutuo della barca.

Ma da allora, che era semplice deputato, è diventato l’eminenza grigia del partito di cui è stato segretario dal '94 al'98.
Oggi, Max ha 58 anni. Dal Pci-Pds-Ds ha avuto tutto e lo liquida quindi a cuor leggero. A cosa ora punti col Pd non è chiaro a nessuno. Forse, stanno solo sbagliando i calcoli. Lui e gli altri.
Giancarlo Perna

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