Politica

D’Alema, doppio gioco sulle gabbie salariali

Premessa doverosa: al workshop Ambrosetti, nella sala dove si svolgono i lavori, i giornalisti non possono entrare. Attendono fuori, parlando di calcio (e male dei colleghi assenti) fino a quando rieccheggia il gong, il «rompete le righe». È il segnale che dà il via a 15 minuti di coffee break, nonché a un orrido assalto sia ai relatori - per strappare loro una frase - sia ai vassoi di pasticcini. In quel quarto d’ora, banchieri e imprenditori, manager e politici, distribuiscono la loro «verità» su ciò che è stato detto dietro a quelle porte chiuse. Qualche volta gonfiando, più spesso omettendo.
Un amico fidato, che ieri era dentro quella sala, mi ha però riferito di un curioso e addirittura doppio omissis che ha avuto come protagonista Massimo D’Alema. Che alle agenzie di stampa ha riferito di una sua accorata quanto condivisibile preoccupazione per «la disoccupazione che cresce soprattutto tra i cinquantenni, quelli che difficilmente troveranno un altro lavoro». Definendola «grande emergenza europea che si pone anche in Italia» e aggiungendo poi l’auspicio «di politiche fiscali a favore dell’occupazione che incoraggino la creazione di lavoro e di politiche di assistenza alla disoccupazione perché non possiamo lasciare famiglie senza reddito e persone senza speranza».
Tutto qui, all’apparenza. Si è però dimenticato di riportare, D’Alema, due altre cose da lui dette, forse per compiacere una platea diversa da quella di partito. Cose che però ai giornali era meglio non far sapere. Rivolto agli imprenditori, l’esponente del Pd ha espresso l’auspicio che, per evitare l’aumento del numero di poveri, si reintroducano le gabbie salariali. Proprio così, testuale. Quasi un Bossi coi baffi. O un Calderoli pacato. «Bravo furbo, e lui dov’era, vent’anni fa, quando le hanno tolte?», è stato - una volta fuori - il commento dell’amico, un importante manager, visibilmente furente quasi ai limiti dell’orticaria.
Poi, per compiacere anche il coté sindacale, D’Alema ha bacchettato le imprese, lamentando che a essersi impoverito è lo stesso sistema produttivo dal momento che in tante hanno trasferito all’estero fabbriche e impianti. «Bravo furbo - ha commentato ancora l’amico manager -.

E lui dov’era quando li hanno costretti a farlo, rendendo il lavoro una cosa più rigida di un tondino d’acciaio bresciano?».
GMatt

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