È notorio che la memoria della lotta di liberazione e della guerra civile sia un nervo scoperto della Repubblica. Scoperto per vari motivi. Perché di tutta la storia nazionale, il biennio 43-45 è stato assunto a fonte unica di legittimazione del nuovo ordine democratico. Perché è stato conteso nel corso di tutto questo dopoguerra come risorsa politica principe dai tre poli animatori del sistema politico della prima Repubblica (sinistra, centro, destra) al fine di accaparrarsi un di più di credibilità - per gli uni democratica, per gli altri nazionale - nello sforzo di assicurarsi il raggiungimento dei loro differenti obiettivi. Per quanto riguarda la Dc, una stabile posizione dominante tra gli «opposti estremismi» illegittimi; per i comunisti per costruire un equilibrio politico della democrazia repubblicana fondato su quellarco costituzionale di cui il Pci stesso finisse per costituire lasse portante; per i nostalgici, infine, leliminazione della conventio ad escludendum che li relegava nel ghetto e impediva il loro rientro a vele spiegate nellagone democratico.
NellItalia della seconda Repubblica la competizione in materia si è di molto attenuata, in corrispondenza con lesigenza sistemica di avvalorare una reciproca leale accettazione dei due poli animatori del confronto al punto che si è diffuso lauspicio di una memoria al fine «condivisa». Ciò non toglie che il nervo resti (parzialmente) scoperto e motivo ricorrente di invasione dei rispettivi campi dazione da parte di storia e politica. Di nuovo nervo scoperto da un lato perché la memoria della Resistenza resta pur sempre una risorsa troppo preziosa nella competizione politica e quindi è bene tenerla, se non altro, come arma di riserva nel caso il confronto si facesse di nuovo duro e frontale. Dallaltro perché, visto che tra identità e memoria deve stabilirsi una corrispondenza, le nuove identità dei nemici di prima (destra e sinistra) diventati oggi semplici avversari esigono, si voglia o no, una «revisione» della memoria coerente con la stagione del bipolarismo e ciò è difficoltoso e politicamente oneroso e lacerante in quanto cozza con le identità pregresse e perduranti in larghi settori dei «popoli di riferimento». Inoltre, è motivo di scompaginamento della necessaria «divisione del lavoro» tra storici e politici per il carattere, nonostante tutto, ancora incandescente che il tema conserva. Ultimamente ha riattizzato il fuoco Massimo DAlema: un fuoco subito lasciato cadere - si badi bene - e non spento attraverso leliminazione della materia incendiaria, in quanto oggi prevalgono, a sinistra come a destra, considerazioni dopportunità a lasciar cadere la questione. Il presidente dei Ds ha espresso la considerazione, a proposito dellesecuzione di Mussolini, che «sarebbe stato più giusto un processo». Come Norimberga per i nazisti. Subito si è gridato al revisionismo storico. Ci risiamo. Torna la commistione - e confusione - tra storia e politica.
Quello di DAlema non è revisionismo storico. Nelle sue considerazioni non cè nulla di ciò che attiene alla professione dello storico. Cè molto invece di politica, comè legittimo e giusto che sia quando sul passato si esercita il leader di un partito. Nel non-detto, ma sottinteso, delluscita del presidente diessino si deve leggere quanto segue: sono un democratico, sono perciò - et pour cause - per il bando della violenza dalla lotta politica, non posso quindi concordare con quanti «non vogliono fare prigionieri politici». Oggi come ieri, perché i valori non sono, oltre che non contrattabili, tanto meno validi ad intermittenza: rispettati oggi e calpestati ieri (o domani). Ne va della sua credibilità. Esattamente la stessa (giusta) ragione che motivò a suo tempo la sdegnata reazione politica alluscita di Fini su «Mussolini grande statista». Giusta perché la qualifica strideva con il vantato approdo degli ex-neofascisti alle sponde della democrazia. Per la semplice ragione che un democratico non può esprimere apprezzamenti per un non-democratico, pena laccusa di doppiezza.
Questo non toglie che il passato resti passato e che la riflessione storica si incarichi di appurare i fatti, di chiarire le motivazioni e i calcoli degli attori, di mettere in luce la portata degli eventi e la conseguenza dei comportamenti, tenendosi comunque sempre alla larga dai giudizi politici, tanto più da quelli morali. Questi ultimi sono il (legittimo e, talora, doveroso) campo di esercizio della politica, cui competono le scelte utili a produrre fatti, non la comprensione dei fatti. Sarebbe bene tenere distinti i due campi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.