Cè stata una lunga stagione di ottimismo, coincisa negli anni 90 con gli happy days del clintonismo e giustificata peraltro da uno dei più lunghi cicli di crescita economica, in cui lOccidente si è illuso che il suo modello sarebbe stato vincente, senza più problemi. Distraendolo così da ciò che stava covando sotto cenere, là dove la globalizzazione apriva più ferite di quante non ne riuscisse a cicatrizzare. Poi, il brusco risveglio dell11 settembre 2001, con la scoperta che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Un mondo che dopo la speranza generata dalla caduta del muro e dal superamento dei blocchi, si riscopriva di nuovo in guerra.
Su questa analisi di fondo, sulle sue conseguenze e sulle possibili soluzioni si è discusso ieri a Milano al convegno «Guerra e pace: la società aperta e le relazioni internazionali», a cui hanno preso parte il ministro degli Esteri e vicepremier Massimo DAlema, lex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, leditorialista Sergio Romano e il direttore del Giornale Maurizio Belpietro.
Circa il «Che fare?», e partendo dal presupposto che il concetto di «società aperta è inapplicabile a quella internazionale», ancora lacerata dalleredità lasciata dalla fine degli Imperi, Romano spera in «un abbassamento della mira», parlando piuttosto di «concerto», di «equilibrio dei poteri», magari «accontentandosi di poche regole condivise. Perché il problema non è cambiare il mondo, ma sopravvivere alle sue crisi».
Sul «bisogno di più libertà e pragmatismo» ha insistito Casini, che respingendo le ricette vetero marxiste auspica invece «più Occidente». Chiedendosi se lesportazione della democrazia «sia utile, sufficiente, o serva altro» dal momento che metà del mondo sopravvive con meno di 2 dollari al giorno. Negando però lesistenza di una causa-effetto tra immigrazione e terrorismo.
Del nuovo nemico ha parlato anche DAlema, rivendicando il ruolo della missione in Libano e affermando che «se si vuole sconfiggere il terrorismo bisogna parlare di lotta, non di guerra». Il che richiede «una politica che non escluda luso della forza, ma solo per poter togliere lacqua ai pesci».
Gli effetti di questa guerra inedita sullinformazione sono stati analizzati da Belpietro, partito dalla considerazione che dallinizio del conflitto in Irak abbiamo assistito sì «a una guerra, ma anche a una guerra allinformazione.
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