D’Alema: non prendiamo ordini da Washington

da Roma

Bush? «Noi non dobbiamo rispondere a nessuno, rispondiamo solo al Parlamento della Repubblica. E le nostre forze armate si muovono sulla base delle decisioni delle Camere, non di altri». Il tono è pacato ma il concetto è molto chiaro: non spetta agli Stati Uniti, dice Massimo D’Alema, stabilire la quantità e la qualità dell’impegno militare in Afghanistan. George W. si può quindi mettere il cuore in pace: «Se vorrà chiedere qualcosa, lo farà di persona». Potrà farlo il 9 giugno, quando verrà a Roma in visita ufficiale. «Discuteremo direttamente con lui, non attraverso la stampa».
E sarà proprio questo il piatto forte della trasferta italiana di Bush, la prima dall’insediamento del governo Prodi. È stato l’inquilino della Casa Bianca ad anticiparlo. Washington, ha spiegato, premerà sugli alleati «affinché condividano maggiormente gli oneri e i pericoli della guerra per raggiungere gli obbiettivi comuni». E l’Afghanistan «è ancora una delle prime linee nella lotta contro il terrorismo». «Mi dispiace che il presidente americano sia dovuto ricorrere a questo appello - commenta Silvio Berlusconi -. Dovrebbe essere chiaro che chi va là fa parte della stessa coalizione, con gli stessi diritti e gli stessi doveri».
D’Alema però taglia corto: la missione italiana è regolata dal Parlamento. L’appello americano? «Riceveremo il presidente tra pochi giorni». Del resto, prosegue il ministro degli Esteri, l’Italia «è da tempo pienamente impegnata» e sta per mandare a Kabul i «necessari nuovi mezzi». Però, spiega, la linea resta quella del cercare «il consenso della gente» afghana. «Bisogna essere molto cauti nelle azioni militari Nato perché la perdita di civili è inaccettabile e anche inutile se vogliamo catturare i cuori e le menti della popolazione. Il popolo deve capire che siamo lì per difenderli dai terroristi, non per minacciarli». Quanto alla manifestazioni e alle proteste anti-Bush minacciate dalla sinistra radicale, D’Alema se la cava con una battuta: «Io non mi occupo di ordine pubblico».
Secondo Arturo Parisi l’appello del presidente americano non è rivolto all’Italia. «Non siamo noi i destinatari. Noi stiamo facendo la nostra parte con risultati in linea con gli impegni presi, come anche in Libano e nel Balcani, e lo facciamo in adempimento ad accordi nazionali, su mandato del Parlamento e incoerenza dei dettati costituzionali. Credo che nessuno possa discutere questo fatto». A metà giugno, ricorda il ministro della Difesa, arriveranno a Herat i rinforzi per il nostro contingente: 145 uomini con cinque elicotteri Mangusta, otto corazzati Dardo e dieci blindati Lince. «I mezzi sono partiti il 18 maggio. Mandarlì lì non è come spedire una cartolina». I nostri soldati resteranno comunque nell’ovest del Paese nell’ambito della missione Isaf e «non verranno utilizzati in zone diverse da quelle di loro competenza». Dunque non andranno a sud, assieme a inglesi, americani, olandesi e canadesi, dove i talebani sono più forti. Un ridislocamento, conclude Parisi, «è un’ipotesi difficile, vista l’importanza assunta dall’area ovest». Anzi, «la cosa non è mai stata presa in considerazione, non abbiamo avuto sollecitazioni diverse: non esistono prime linee, ognuno ha il suo settore».
La ricetta italiana resta quindi la stessa, lavorare per «una forte riconciliazione nazionale» che isoli terroristi e talebani. Una strada che D’Alema ha indicato lunedì a Karzai e ieri al presidente pakistano Musharraf, con cui ha avuto un lungo colloquio a Islamabad.

Anche Karzai, racconta il ministro degli Esteri, «considera utile avere dei negoziati diretti con una parte degli insorti, quelli che ovviamente sono pronti a smettere i combattimenti». La chiave sta pure nel rafforzamento della cooperazione regionale, «senza la quale la sicurezza di Kabul è impossibile». Se ne parlerà al G8 tedesco, al quale parteciperanno anche Afghanistan e Pakistan.

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