«Dève a man e annèè in paxe» Il boom delle messe in dialetto

Da qualche pulpito, nel cuore della Padania, è già riecheggiato l’invito: «Deves la man e andéé in pass». Da un altro pulpito sulle rive del mare di Liguria, è risuonato: «Dève a man e annèè in paxe». In attesa, magari, di ascoltare un improbabile, in napoletano: «Mo’, vattenne in abbiento», o un friulano «Lâ in pâs». Che, più o meno, dicono la stessa cosa, essendo le versioni dell’italiano «Andate in pace», da pronunciare al momento del congedo dei fedeli. Eppure la Messa in dialetto ha ancora bisogno di permessi e licenze, approvazione ecclesiastica e benedizione liturgica, prima di entrare a pieno titolo nel vissuto della pratica quotidiana. Merito o colpa - dipende dai punti di vista - del cardinale Angelo Bagnasco, capo dei vescovi italiani e della Curia genovese. Che, alla fine, tirato per la porpora, s’è lasciato convincere.
Ma intanto c’è voluta tutta la diplomazia del professor Franco Bampi, docente di Meccanica razionale alla Facoltà di Ingegneria e di dialetto genovese nei corsi organizzati dall’associazione culturale A Compagna, per indurre il prelato a concedere il nulla osta per celebrare la Messa in vernacolo. Una concessione che era già stata fatta dal predecessore, il cardinale Tarcisio Bertone, ma revocata proprio da Bagnasco, che pure genovesissimo è, se ne vanta e si esprime volentieri in dialetto. Ma un conto è parlare nella lingua-madre di Fabrizio De André quando ci si incontra con amici e conoscenti, un altro conto è stravolgere la sacra liturgia, fissata dal Vaticano II. A mettere d’accordo tutti, almeno nella città della Lanterna, è stata la garanzia che il rito avrebbe rispettato l’integrità in italiano, mentre al dialetto sarebbero state riservate le cosiddette parti mobili, cioè le letture, il salmo responsoriale, le intenzioni di preghiera e la predica. Così, dopo gli «esperimenti» di successo (fin dal 2003) al santuario della Vittoria e nella chiesa di Santa Caterina, oggi, nell’Abbazia del Boschetto a Cornigliano, ponente industriale della città, monsignor Luigi Noli si rivolgerà ai fedeli in genovese. Con buona pace degli amanti delle tradizioni locali che esistono e resistono in gran numero in tutto lo Stivale.
Come i friulani del «Fogolar furlan», che delle radici hanno fatto una bandiera e sono stati fra i primi a chiedere la messa in dialetto. Oddio, anche loro hanno incontrato resistenze. Lo scorso anno, nella domenica delle Palme, per perorare la causa s’è scomodato persino il presidente della Provincia di Udine, Pietro Fontanini: «Manifesto pieno disappunto - ha tuonato, in italiano e in dialetto, aggiungendo in questo caso qualche moccolo fuori ordinanza - per quanto dichiarato dal parroco di Aquileia che si rammarica di non poter celebrare la Messa in friulano». Più di recente si è mobilitato l’europarlamentare della Lega, Matteo Salvini: «Non sta a noi decidere - ha riconosciuto l’autorevole esponente del Carroccio -. Ma mi permetto un suggerimento ai vertici del Vaticano: se le Messe fossero celebrate negli idiomi locali, i giovani ne verrebbero sicuramente incuriositi e attirati».

E anche se il cardinale Walter Kasper, ministro vaticano per l’Unità dei cristiani, continua a sostenere che «la sacralità e la santità della Messa richiedono lingue ufficiali, altrimenti si ridicolizza e si banalizza la celebrazione», i fautori del dialetto nel messale gioiscono per «la breccia aperta nella diga dell’immobilismo». Se poi servisse anche ad aumentare il numero dei fedeli al precetto, la diga crollerebbe del tutto. Con tanto di benedizione apostolica. Rigorosamente in vernacolo.

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