Dai martinitt all'impero di carta: l'ascesa del Cumenda

Si spegneva quarant'anni fa il fondatore di uno dei giganti dell'editoria italiana: Angelo Rizzoli. Orfano, timido e "un po' asino", riuscì comunque a conquistare il mondo della cultura

Dai martinitt all'impero di carta: l'ascesa del Cumenda

Il cumenda teneva sul lato della bocca, appena stretta tra i denti, la sigaretta al mentolo. Era finta, la mordeva, serviva per dargli un tono in mezzo a quella gente che gli ronzava attorno. C’è una fotografia di Angelo Rizzoli, scattata da Emilio Sommariva a metà novembre del Trentadue. Rizzoli è in posa come un commendatore, anzi commendatore del Regno, secondo nomina conferitagli in quei giorni dopo che la tipografia Rizzoli aveva provveduto a stampare le fotografie ufficiali di Vittorio Emanuele e di Benito Mussolini da spedire a tutti gli uffici pubblici e scuole. Nell’immagine, la giacca è aperta a mostrare il panciotto, si intravede la catena pendula dell’orologio; sulla camicia bianca spunta un papillon sghembo, le mani sono nascoste, infilate dentro le tasche dei pantaloni, la gamba destra è appena più avanti, l’espressione del viso, con il mento leggermente alzato, cerca di essere altera ma risulta impacciata, come di uno costretto a stare lì davanti al treppiede e al Sommariva nascosto sotto la stoffa nera della Reflex. Le sue memorie di martinitt, povero tra i ricchi, quelli pettinati con la riga, con le gote imporporate, lui spinto e dimenticato all’ultimo banco a scuola, in fondo a destra, con i capelli agitati dai pidocchi, in una esistenza agra, con un padre che si era tolto la vita davanti alla miseria, una sorella che di fame muore anch’essa, un’infanzia difficile, una luce che tarda ad arrivare, i suoi ricordi, dunque, che cosa mai potevano c’entrare con quel momento, con quello scatto, quel ritratto austero e quel titolo tronfio?

La storia di Angelo Rizzoli è la storia di un uomo che non leggeva i libri, quelli che pubblicava e gli altri, ma sapeva leggere gli uomini e la loro vita, è la storia di un uomo che non amava i falsi ricchi perché non aveva dimenticato la propria vera povertà, è la storia di un tipografo che si svegliava al buio di un’alba non ancora nata e rientrava nella luce scura della notte, spingendo sui pedali del triciclo per tornare a casa, portandosi appresso l’odore del piombo e la fuliggine nera delle linotype. Si narrò che Angelo, con un suo compagno di lavoro, sottraesse, di tanto in tanto, qualche risma di carta, ritagliavano i fogli, trasformandoli nei blocchetti dei conti per le osterie e i trani milanesi. I primi denari. Sembrano pagine o fotogrammi di un film poetico e romantico, Rizzoli era la fabbrica della fantasia, come di lui scrisse Oriana Fallaci. La fabbrica e la fantasia sono due cose che non dovrebbero andare insieme ma sono la sintesi di un favola reale. Angelo Rizzoli era un martinitt dunque, vengono chiamati così gli orfani dell’oratorio di San Martino.
Quando entrò nell’istituto milanese, era febbraio, il giorno dieci del milleottocentonovantacinque, si sentì finalmente un povero in mezzo ai poveri, il banco non fu più l’ultimo, in fondo a destra, i capelli, che sua madre provvedeva a tagliare, non erano più territorio libero. Rizzoli si fermò alla quinta elementare, il suo italiano era spesso incerto, non sapeva di letteratura e di latino ma la sua lingua era comunque comprensibile, educata, mai volgare, faticava a ricordare i cognomi: «...come si chiama quel lì, quel Napoleone a Cascais...». Roba piccola rispetto all’impresa grandiosa che seppe mettere assieme, nell’editoria, tra quotidiani, riviste, libri, enciclopedie, nelle opere edili, fabbriche, ospedali, cartiere e poi la produzione dei film, la Cineriz. Il cinematografo era il luogo dei sogni, diventò La Dolce Vita e Otto e mezzo, un oscar, Fellini e le donne, belle, grandiose, fascinose. Andava in Rolls Royce al festival di Cannes ma non era cilindrata sua, si sentiva buffo e goffo, ricordando i pedali e il triciclo. Rizzoli viaggiava sul treno Settebello, il suo sette di denari lo metteva sul tavolo da mezzo secolo, teneva in tasca, sempre, un mazzo di carte; il gioco, anche d’azzardo, lo divertiva; al casinò, quando la pallina della roulette si fermava sul numero da lui scelto e puntato, lo spettacolo era garantito, la finta sigaretta al mentolo tremava tra le labbra, non per l’emozione ma per il sorriso, la cintura dei pantaloni, portata alta, quasi sotto il petto, seguiva la danza. Il tipografo che aveva debiti e cento operai era diventato ormai un impresario, il commenda non aveva bussato alle banche per crescere e poi chiedere aiuto, i conti tornavano, si scrisse che prima della guerra il suo patrimonio superasse il miliardo di lire, alla sua morte la somma superava i 180 miliardi: «i quattrini bisogna farseli perdonare», quando usciva dal suo ufficio spegneva la luce anche delle altre stanze vuote: «bisogna risparmiare sulla bolletta», i politici gli ronzavano attorno per garantirsi, loro, un supporto e, magari, qualche bella femmina, le monete d’oro che il commenda distribuiva agli amici e conoscenti, una gita sul Sereno, il panfilo che aveva a bordo John Wayne e la Taylor, un film tra le onde del mare.
L’amicizia con Pietro Nenni non rientrava in questa categoria. Nenni era orfano come Rizzoli, i due trovarono simpatia nella memoria degli affetti mancati, nessun patto politico, nessun fiancheggiamento di propaganda, Pietro era un amico non un compagno, eventualmente di giochi, da osteria, le carte, le bocce. Angelo Rizzoli era anticomunista e anticlericale, la sua fazione ideologica stava a destra ma l’idea non veniva mai svilita dai comportamenti e dai linguaggi.
Quando Rizzoli preparò un assegno di duecento milioni (!) e lo presentò a De Sica per dirigere Don Camillo, il grande regista oppose un rifiuto temendo di inimicarsi i capi del partito comunista. Non amava Sordi e il sordismo, il piccolo italiano di una piccola Italia, aveva grande trasporto per Walter Chiari, il grande italiano di un’Italia possibile, fantastica non fantasiosa. Angelo Rizzoli sapeva di essere un somaro: «sì un somaro che ha fatto una casa editrice, un somaro che ha fatto una cartiera, un somaro che ha costruito le terme e un ospedale», era un uomo che non aveva dimenticato l’infanzia e le notti faticose nella nebbia milanese, il suo saluto era ancora la mano alla visiera del Borsalino come faceva da garzone di tipografia, con il cappellino a cilindro sulla divisa da lavoro; era un uomo superstizioso in soggezione davanti ai giornalisti.
Noi italiani eravamo circondati da quel marchio, l’erre verde, sui libri della Bur, sull’Enciclopedia Treccani, sulle riviste, Oggi, Candido, l’Europeo, Bella, via Rizzoli, Il Corrierone, la Milano del boom, la Milano da bere che si è bevuta l’impresa di Angelo Rizzoli, il commendatore, quello con i pidocchi, solo, nell’ultimo banco, in fondo a destra.

Nella

stanza 256 della clinica Columbus la luce si fece debole, fino a spegnersi, la fabbrica di fantasia, dopo ottantuno anni, concludeva la sua storia. Era la sera di giovedì ventiquattro settembre, del millenovecentosettanta.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica