Dall’«imbucato» al computer «impallato» Il romanesco diventa un segno d’identità

A Roma Tre pronto il vocabolario del dialetto che fu del Belli e di Trilussa

È quasi pronto per la stampa (prevista per il 2008) il nuovo vocabolario del romanesco contemporaneo a cui stanno lavorando da tre anni - ma l’idea è più antica - Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi del Dipartimento di Italianistica dell’Università Roma Tre. Ieri, sorpresi che in aula non ci fossero solo studenti, hanno fatto il punto sullo stato della ricerca, presentando un campione delle lettere «I» e «D», in attesa di altri finanziamenti e dell’editore. A differenza di quello che è accaduto per i fiorentini, i milanesi o i napoletani che hanno dal ’700 o dall’800 propri vocabolari dialettali, il romanesco ha dovuto aspettare il ’900 per averne uno, quello di Filippo Chiappini, pubblicato a cura di Bruno Migliorini nel ’33 e aggiornato nel ’45. L’ultimo vocabolario che colma alcune lacune e si avvicina al romanesco parlato, di Ferdinando Ravaro è del ’94. E c’è un perché. La labilità del confine fra italiano e romanesco. Si pensi a «bufala», nel senso di notizia infondata, è certamente di origine romanesca, forse in riferimento alla fregatura di avere carne di bufala al posto della vitella, ma il vocabolario del Ravaro non la cita. L’elenco potrebbe continuare con nomi di luoghi, di persone, di santi, con modi dire tipici. Quel tormentone «che te lo dico a fa’» si distingue poco dall’italiano, ma è molto romanesco nel significato che assume. Vi sono poi parole nuove che hanno un’origine a Roma, come «cassettaro» ladro specializzato nel furto delle cassette di sicurezza, «cazzaro» chi fa o dice sciocchezze, «coccio» essere duro di comprendonio... E verbi riflessivi che assumono nuove accezioni come «imbroiasse», detto del tempo o del cielo che si guasta o «imbucasse» per indicare chi entra in una festa senza essere invitato. Parecchie sono anche le parole di origine romana in gastronomia. La «stracciatella» che si è diffusa da Roma e la variante dei «quadrucci» per i quadretti in brodo, le «mazzancolle» nata negli anni ’50 e la «gricia», la pasta in bianco all’amatriciana. I «Grici» erano i Grigioni, ovvero gli orzaroli che venivano dalla Valtellina e avevano un grembiule grigio. Il lavoro è partito da quello che era stato annotato prima e si è arricchito con indagini sul campo che, accanto a parole e a modi dire caduti in disuso o conosciuti solo dagli anziani o in settori specifici (chi sa più che l’altalena era detta «canofiena»?), hanno portato alla forte spinta innovativa dei più giovani. «Per loro il dialetto è segno d’identità, che non si oppone all’italiano, ma è una variante aggiuntiva», dice il professor Giovanardi. E ricco di neologismi che talvolta travalicano il mondo giovanile. Come quel «a palla» per «al massimo» che usano tutti vecchi e giovani. O «impallato» per indicare il bloccarsi del computer.

Comunque, memori del Belli e di Pascarella, ci sarebbe una relazione stretta fra il romanesco dell’anziano trasteverino e il «romanaccio» dell’adolescente. «Non è lo stesso dialetto, ma c’è una continuità - precisa il professor D’Achille- alcune cose si sono perse, altre si sono aggiunte e molte si sono trasmesse».

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