Dalle accuse di scopiazzare alle amicizie imbarazzanti: tutti i ko del pugile scrittore

A catturare ieri Iovine è stato il capo della Mobile di Napoli che aveva negato la scorta a Saviano. In "Gomorra" non salva nessun politico tranne un ex diessino in giunta con il fratello del superboss. Il suo mito, il boxeur Pietro Aurino, è stato arrestato perché picchiava chi non pagava il pizzo

di Pier Francesco Borgia e Gian Marco Chiocci

Se il buongiorno si vede dal mat­tino, ieri Roberto Saviano non vede­va l’ora di andare a dormire. Per l’im­barazzo. Perché lo schiaffo ricevuto a metà pomeriggio dal ministro Ma­roni è di quelli che stordiscono i più accecati detrattori del governo Ber­lusconi, a cominciare dallo scrittore di Gomorra che in tv ha catechizza­to gli ascoltatori sulla connection fra la Lega e le ’ndrine del nord. Schiaf­fo bissato da un ceffone ancor più doloroso se si pensa che ad arresta­re il boss Antonio Iovine, ci ha pensa­to l’ufficio guidato da un poliziotto coraggioso nella lotta al crimine quanto impreparato a difendersi dall’accusa di«lesa maestà»:parlia­mo del capo della Squadra Mobile di Napoli, Vittorio Pisani, che per aver osato dubitare sull’urgenza di una maxi scorta allo scrittore, è stato crocifisso dai fan dello scrittore ca­sertano, già sgomenti per l’archivia­zione dell’inchiesta sul fantomatico attentato natalizio sbandierato a mezzo stampa anche se mai pensa­to dalle cosche: «Dopo gli accerta­menti sulle minacce che Saviano as­seriva aver ricevuto - confessò lo sbirro impenitente di cui Repubbli­ca chiese l’allontanamento - dem­mo parere negativo sull’assegnazio­ne della scorta. Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poli­­ziotti, carabinieri, magistrati e gior­nalisti che combattono la camorra da anni». Il castello di carta può non scricchiolare ma basta un debole ali­to per farlo crollare. Mettere insie­me pezzi disordinati di inchieste (giornalistiche o giudiziarie poco importa), condirli con retorica dea­micisiana e azzardare teoremi sug­gestivi, è una ricetta vincente per un gourmet della cattiva informazio­ne. Partiamo dall’origine,da Gomor­ra . Nessun politico è promosso, tranne uno: Lorenzo Diana, già par­lamentare Ds, membro nella com­missione antimafia, ora dipietrista convinto. Eppure secondo alcuni suoi lontani trascorsi ripresi in inter­pellanze parlamentari (che a politi­ci come Cosentino non sarebbero perdonati) vien fuori che alla fine de­gli anni Settanta, Diana era in giunta a San Cipriano d’Aversa con Erne­sto Bardellino (fratello del super­boss Antonio) e Franco Diana (arre­stato e ucciso in cella per un regola­mento di conti). Niente di grave, per carità. Ma se in una giunta simile ci fosse stato Cosentino? La risposta è scontata. Saviano, per dire, non ha perdonato all’ex sottosegretario nemmeno certe scomode parente­le che nelle piccole comunità sono la regola: «Un fratello di Cosentino è sposato con la sorella di Giuseppe Russo, detto Peppe il Padrino, espo­nente dei casalesi e della famiglia Schiavone!» E poco importa che an­che don Diana, il sacerdote ucciso dalla camorra e che Saviano celebra ogni volta che può, avesse parentele scomode come quelle di Cosentino: «Il parroco era mio parente da parte di papà - racconta a verbale Carmi­ne Schiavone, killer pentito - men­tre la sorella Maria ha sposato Zara Antonio, figlio di Schiavone Maria e di Schiavone Vincenzo». E importa ancora meno che il prete, sempre a detta del collaborante, si fidasse del futuro sottosegretario all’Economia tanto da non far mistero di votare per lui. Quello che vale per gli altri, insomma, non vale per sé. Saviano non ha il copyright dell’anticamor­ra in Terra di Lavoro, non è l’unico cronista a battersi per la verità sco­moda ai clan. Dei dodici colleghi­eroi senza scorta e senza ribalta, a cui i casalesi hanno bruciato l’auto, sparato a casa, recapitato resti di ani­male in redazione, Saviano non par­la. Trova piuttosto il tempo di attac­care quei quotidiani locali per certi titoli a effetto che lo scrittore esula dal contesto (un verbale, una testi­monianza) e definisce infami. Non ha mai parlato delle rivelazioni che il Giornale mandò in stampa il 18 marzo 2009 dal titolo: «Così Saviano ha copiato Gomorra». Interi brani ri­presi, senza citarli, da «corrispon­denze di guerra» di cronisti con l’el­metto da sempre. Nulla da dire nem­meno sulla citazione per danni da mezzo milione di euro di Simone Di Meo, segugio di Cronache di Napoli che solo dopo aver ottenuto la corre­zione e la citazione della fonte (il suo nome) a partire dall’undicesi­ma ristampa di Gomorra , ha deciso di soprassedere. Nessuna citazione per le numerose disgrazie del cen­trosinistra nel regno del nemico «Sandokan». Un esempio, decine di esempi. La giunta dell’ex presiden­te della provincia di Caserta, Sandro De Franciscis, è finita nei guai per i lavori affidati a ditte del boss stragi­sta Giuseppe Setola e lo stesso ex pre­sidente è stato intercettato mentre parlava di protezioni della «camor­ra di Casale». Nessuno sputtana­mento mediatico sul modello di quelli riservati ai big del centro-de­stra. È ovvio che poi Saviano non può pretendere di passare, a pre­scindere, per «credibile». È scontato che poi gli invidiosi ironizzino sulle improbabili confidenze liceali con Pietro Taricone nonostante i quat­tro anni di differenza.

Ed è normale che il destino si accanisca anche a commento del suo annuncio di dar­si alla boxe come Pietro Aurino («il mio mito»), purtroppo per Saviano arrestato perché picchiava chi non pagava il pizzo. La verità, insomma, è più prosaica di un’informazione «spettacolare».

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