Dalle barricate anti-cemento alle cene con i costruttori

Era il 1989, l’anno in cui cadde il muro di Berlino e la Federazione giovanile comunista di Firenze piantò una tenda rossa sulla spianata del Castello per impedire lo sviluppo edilizio dell’area. Leonardo Domenici era tra i militanti della Fgci che festeggiavano la telefonata dell’allora segretario Achille Occhetto che bloccò i lavori. «Sento puzza di bruciato», disse il futuro traghettatore della Bolognina al segretario provinciale del Pci Paolo Cantelli. Oggi Domenici è dalla parte dei costruttori, mentre Occhetto è rimasto sulle barricate anticemento e a chi gli domanda un commento risponde che è una faccenda da «compagni di merendine».
Il cinquantatreenne Domenici, laureato in filosofia morale, è un politico di professione, ascendente D’Alema. Dirigente fiorentino del Pci, consigliere comunale nei primi anni ’90, fa due legislature alla Camera prima di essere eletto sindaco di Firenze nel 1999, al primo turno. L’anno dopo diventa anche presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni d’Italia, «sindaco dei sindaci» come dice lui con civetteria: lo è tuttora. Sul sito ufficiale del comune fissa di sé i seguenti «memorabilia»: ha dato vita all’ufficio «Ideali» a Bruxelles «con l’obiettivo di lanciare un ponte tra la realtà nazionale e le istituzioni dell’Unione europea»; ha promosso il progetto «Res Tipica» per valorizzare «il patrimonio delle “tipicità” degli 8mila comuni italiani»; ha organizzato il vertice sul «Riformismo nel XXI secolo» con Clinton, Jospin, Blair, Schröder e D’Alema; ha ospitato il Social Forum del 2002; «ha evitato la cancellazione dal calcio professionistico della squadra di calcio di Firenze, dando tempestivamente vita a una nuova società, affidata in seguito all’imprenditore Diego Della Valle». L’amico per il cui stadio voleva cancellare il parco pubblico di Castello.
L’agiografo internettiano dimentica le furiose polemiche sulla tranvia che passa a pochi metri dal Duomo, per non pedonalizzare il centro storico di una delle capitali mondiali dell’arte. O la condanna per «danneggiamento del patrimonio archeologico, artistico e storico nazionale» arrivata il giorno in cui aprì la campagna elettorale per la rielezione a sindaco: una riconferma ottenuta nonostante il polemico strappo di Rifondazione e dei «professori» girotondini che, correndogli contro, lo costrinsero all’umiliazione del ballottaggio.
In questi dieci anni Firenze non ha conosciuto colpi d’ala e scatti d’orgoglio. Il progetto più ambizioso era proprio quello di Castello, punta di diamante del cosiddetto Piano strategico. Case, centri commerciali, alberghi, i nuovi uffici della Provincia e della Regione Toscana e addirittura il nuovo stadio dell’amico Diego a un passo dalle autostrade. Non è tanto il blocco dell’attività edilizia che segna il suo tramonto (lui stesso ha chiuso il capitolo dicendo che se ne occuperà il suo successore), quanto le parole intercettate. Il parco «fa cagare da sempre», è da «smitizzare» e gli attacchi più pesanti vengono dai giornali del gruppo L’Espresso.
Domenici ha reagito con crescente nervosismo. Nega coinvolgimenti, ma lui stesso ha rivelato la cena all’Hassler di Roma con Ligresti e Della Valle per parlare dello stadio.

Ha annullato la cerimonia degli auguri di Natale alla città, una tradizione mai mancata dagli anni ’50; ha presentato cinque querele in tre giorni; ha annunciato il ritiro dalla politica alla fine del mandato; ieri si è incatenato a Roma. Il filosofo non l’ha presa con filosofia.

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