A leggerlo con gli occhi miopi del presente, Loperaio di Ernst Jünger sembra la grandiosa metafora dellavvento dei tecnici al potere. Anzi il Tecnico stesso sembra lOperaio in loden, versione estrema della borghesia che si è fatta globale e immateriale come la finanza rispetto allepoca delloro e del decoro. Ma più in profondità, lo sguardo profetico di Jünger è rivolto a unepoca planetaria dominata dalla tecnica, che ha un esito a sorpresa rispetto alle sue premesse: la tecnica «spiritualizza la terra». Dopo gli dei, dopo il monoteismo, verrà lo Spirito, signore dellEtà dellacquario, che appare attraverso i sogni e agisce mediante la magia. Lo spirito verrà tramite la tecnica, scrive Jünger, nel suo linguaggio oracolare, a volte allusivo, in alcuni tratti reticente, ed esoterico. Dopo la catastrofe e in fondo al tunnel del nichilismo il suo pensiero intuitivo scorge una luce inattesa. Non la luce di un nuovo umanesimo, come pensavano da differenti postazioni i suoi contemporanei Maritain e Gentile, Bloch e Sartre. Ma un disumanesimo integrale, una sorta di superamento dellumano e non in una dimensione sovrumana, alla Nietzsche, ma compiutamente inumana, geologica e spirituale. In questa chiave, lOperaio è un nuovo titano, quasi una figura mitologica, della razza di Anteo, Atlante e Prometeo, che mobilita il mondo tramite la tecnica, che è il suo linguaggio.
Loperaio di Jünger - o Milite del lavoro, come preferivano tradurre Delio Cantimori e anche Julius Evola - compie 80 anni e per loccasione esce finalmente in Italia Maxima-Minima (Guanda, pagg. 124, euro 12), un libro breve e intenso che fu la prosecuzione dellopera jüngeriana del 32 a 32 anni di distanza, nel 1964. Quando dirigevo da ragazzo una casa editrice, negli anni Ottanta, tentai temerariamente di farlo tradurre in Italia; ma alla Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte, lagente letterario di Klett Cotta, leditore tedesco, mi disse che questopera era già opzionata in Italia. Ci sono voluti quasi trentanni per vederla alla luce ora, a cura e con la postfazione di Alessandra Jadicicco. Unopera oracolare di minima loquacità e massima densità, in cui si avverte il respiro della grandezza, dove leco dellOperaio si mescola alleco dello Stato mondiale, Le forbici, Al muro del tempo e altre opere jüngeriane del suo personale «Nuovo Testamento», come egli stesso diceva.
La tesi metafisica è quella: dalla Macchina, per inattese vie, sorgerà lo Spirito; il Mito, il Gioco, la Geologia e lAstrologia lo porteranno a compimento. Ma dalla Tecnica sorge anche il nemico: laddove il tecnico «conquisti il governo politico, se non dittatoriale, grava la peggiore delle minacce». Il condensato deteriore della tecnica è lautomatismo, che è il peggiore degli autoritarismi, un dispotismo che uccide la libertà alla radice. E qui Ernst Jünger ritrova suo fratello Friedrich Georg che alla Perfezione della tecnica e allavvento degli automi aveva dedicato un lucido saggio, degno del suo germano (tradotto in Italia dal Settimo Sigillo nel 2000). La tesi metapolitica di Jünger è invece lavvento auspicato dello Stato planetario, dopo lunificazione del mondo compiuta dalla Tecnica, di cui scriveva negli stessi anni in Italia anche Ugo Spirito. Dopo la patria il mondo intero sarà amato come «Terra Natia».
Destra e sinistra, rivoluzione e conservazione, sono per Jünger braccia di uno stesso corpo. Ma il politico, rispetto a questi fenomeni grandiosi, è inadeguato, si occupa dellovvio dei popoli, si cura del successo e dellattualità, non si sporge nellavvenire e, a differenza dellartista, non dispone di uno sguardo ulteriore.
La miseria della politica propizia il dominio della tecnica (sembrano glosse al presente...). A rimorchio della politica va la giustizia che «segue la politica come gli avvoltoi le campagne degli eserciti». Dei, padri, autorità, eroi tramontano nellera in cui la prosperità cresce con linsicurezza.
Tocca alloutsider, che Jünger aveva battezzato già lAnarca o il Ribelle, avvertire come un sismografo il tempo che verrà. «Lamarezza riguardo ai contemporanei è comprensibile in chi ha da dire cose immense».
Pensieri lucidi e affilati come lame si susseguono nella prosa asciutta e ad alta temperatura di Jünger; a volte sfiorano la storia, i popoli, le culture, le razze.
Precorrendo o incrociando le tesi della Scuola di Francoforte e di Herbert Marcuse in particolare, Jünger nota che la nuova schiavitù e la nuova alienazione non si concentrano più nel tempo della produzione, ma nel tempo libero. La dipendenza si sposta dal lavoro al consumo. Jünger intuisce che la globalizzazione coinvolgerà non solo i popoli più avanzati, ma anche le società feudali e primitive, che rientreranno in pieno nel ciclo della tecnica: e ci pare di vedere le tigri asiatiche, la Cina, lIndia e la Corea nel suo sguardo profetico.
Jünger critica la pur grandiosa morfologia della civiltà di Oswald Spengler e incontra invece il nichilismo attivo e poetico di Gottfried Benn e soprattutto il pensiero di Martin Heidegger, che a sua volta studia e fa studiare nei suoi seminari Loperaio e per altri sentieri raggiunge la stessa radura di Jüger, al di là dellumano.
Ho letto in questi giorni, accanto a Jünger, gli appunti heideggeriani raccolti sotto il titolo La storia dellEssere (Mariotti editore, pagg. 206, euro 22, a cura di Antonio Cimino) dove si respira in altre forme e linguaggi la stessa aria jüngeriana: il dominio planetario della tecnica, la rivoluzione conservatrice, il realismo eroico, il potere di cui i potenti sono esecutori e non dignitari, la guerra e la mobilitazione, la scomparsa dellumano. E affiora esplicito il nome di Jünger. Sullo sfondo, come unallusione che vuol restare in ombra, la tragedia della Germania e dellEuropa.
Quel che alla fine apre allapocalittico Jünger uno spiraglio di luce nella notte è lAmor fati, laccettazione istintiva del destino. «Tutto ciò che accade è adorabile» scrive Jünger citando Léon Bloy. E una leggera euforia attraversa il paesaggio catastrofico, quasi una musica sorgiva tra le rovine e gli automi.