«Dalle urne uscirà il new deal israeliano»

«Vogliamo vivere in pace, ma siamo in pericolo. Siamo pronti a liberare le colonie, però Kadima deve conquistare un grande consenso per cambiare la storia»

Luciano Gulli

nostro inviato a Gerusalemme

«Queste non sono elezioni normali. Sono un referendum su un processo destinato a durare anni e ad attraversare varie campagne elettorali. Elezioni di svolta, le definisco io. Come quelle che inaugurarono il New Deal in America, dopo la crisi del 1929. Perché il punto, prima ancora che politico, è antropologico, se mi passa la parola. Sintetizzo: gli israeliani vogliono la pace, ma non ci credono. Sono stanchi di promesse e di cerimonie sul prato della Casa Bianca. Stanchi di accordi altisonanti che poi partoriscono topolini. Noi vogliamo solo una vita normale, serena. Vorremmo andare in vacanza in Toscana, portare i bambini a Disneyland. Vivere come la gente normale. Per ottenere questo dobbiamo proseguire sulla strada tracciata da Ariel Sharon. Alternative non ce ne sono».
Ranaan Gissin, 57 anni, portavoce e consigliere politico della «Grande ombra» che giganteggia sullo sfondo delle elezioni di martedì si siede davanti a un bicchiere di vino rosso in un ristorante del centro. Oggi ha promesso di dedicarci tutto il tempo che vorremo. Fuori dall’uscio ci sono le telecamere di Al Jazeera e un cronista del Golfo che incrocia impaziente lasciando una scia di fumo come una torpediniera. «Aspetteranno» risponde lui allegro, giocherellando con il portacipria dorato, da vamp del video, che il vecchio soldato con la faccia da cane da presa si è portato appresso. «Un po’ di make up... balorde esigenze televisive... che vuol farci...», si scusa facendo piroettare sul tavolo l’arnese dorato. Di Kadima, il partito fondato da Sharon, Gissin rappresenta una delle anime più profonde. Quando parla lui, è come se parlasse il grande assente, tuttora ricoverato in coma all’ospedale Hadassah. Ed è lì, dopo le interviste, che Gissin andrà, come fa spesso.
La strada tracciata da Sharon prevede l’abbandono da parte di Israele di gran parte delle colonie. È questo che intende?
«Esattamente. Si ricorda la guerra del Kippur, nel ’73, quando Sharon con le sue truppe attraversò il canale di Suez distruggendo la Terza Armata egiziana? Allora, con quella mossa, salvò il Paese. Oggi è come se ci accingessimo a un secondo attraversamento. Dopo il ritiro da Gaza si è sciolto un nodo. Prima eravamo al bivio: ci teniamo tutto il territorio conquistato, inseguendo il sogno di Eretz Israel, del Grande Israele, o facciamo delle rinunce territoriali per guadagnarci un futuro di stabilità? Sharon, col suo istinto infallibile, ha capito che cosa voleva il popolo. E ha scelto. Le vecchie ideologie, gli schematismi di destra e sinistra avevano ingessato gli elettori. Lui ha capito che il sogno del Grande Israele era diventato irrealistico. Si è mosso da solo. Dietro non aveva né il partito né la Knesset. Ma ha visto giusto».
Anche la demografia è contro di voi...
«Ma soprattutto non abbiamo, in campo palestinese, un partner con cui trattare: qualcuno che voglia accettare il nostro diritto a stare dove siamo e dove eravamo mille anni prima che arrivassero gli arabi».
In compenso, al potere ci sono ora quelli di Hamas...
«Ed è come se fossimo tornati indietro di 60, 70 anni, quando nell’area di Nablus imperversava la banda del predone arabo Abu Jilda, e le mamme dicevano ai bambini: se non fai il bravo arrivano quelli di Abu Jilda. Oggi, al posto di quella vecchia gang ci sono le Brigate Al Aqsa, la Jihad, i Tanzim. E noi restiamo una democrazia sotto il fuoco. Solo negli ultimi giorni, le forze di sicurezza hanno avuto 76 segnali di allerta. Stanno puntando a un grosso attentato suicida in vista delle elezioni, è chiaro».
I sondaggi danno sempre in testa Kadima. Ma il Labor di Amir Peretz e l’estrema destra di Liebermann rimontano. Con chi farete squadra?
«Sharon diceva che se vuoi fare la pace o la guerra devi avere una grande maggioranza alle spalle. Noi puntiamo a quaranta seggi. Trentacinque è la soglia minima. Israele è come una tribù. E la tribù, proprio ora che il grande capo è assente, è in pericolo. Noi viviamo tutti i giorni come su un surf sulla cresta dell’onda di uno tsunami. O come Alice nel paese delle meraviglie, dove tocca correre per restare almeno dove sei. A queste elezioni ci serve il consenso più ampio possibile. E tutti quelli che condivideranno le linee guida di Kadima saranno ben accetti».
E il Likud di Netanyahu?
«È come nel big bang, che genera nuove stelle mentre le vecchie finiscono nei buchi neri. O cambiano, o scivoleranno nell’oblio».
Ai palestinesi cosa direte?
«Il presidente Abu Abbas ha gli strumenti per costringere Hamas ad accettare gli accordi siglati dall’Autorità palestinese con noi. Possiamo aspettare anche un anno. Poi procederemo unilateralmente. Una tregua di due anni, come quella in vigore, non ci basta più. I palestinesi dovranno scegliere. Se vogliono Hamas, con la sua politica di incitamento all’odio, vivranno nella terra di Abu Jilda, senza investimenti stranieri, senza tecnologia, legati alla greppia e al buon volere dei Paesi arabi».
Altro tema centrale della campagna di Kadima è la minaccia iraniana.
«Ma qui dobbiamo essere chiari. Israele non guiderà la battaglia contro un Paese che finanzia quaranta organizzazioni terroristiche e si sta confezionando l’atomica. È un problema che riguarda tutto il mondo libero. Si deve muovere l’Onu. Si cominci con le sanzioni; li si privi della tecnologia occidentale; si appoggi l’opposizione interna. Poi, se tutto questo non funzionerà, bisognerà accettare l’idea di un intervento militare guidato dagli Usa e appoggiato dalle Nazioni Unite che neutralizzi la minaccia».
Un’ultima domanda. Il pericolo islamico si allunga anche sull’Europa.

Come rintuzzarlo?
«Mettendo sotto la lente d’ingrandimento le moschee, che sono come le serre dell’odio. È lì, in quelle incubatrici, che si insegna alle nuove generazioni a odiare i valori occidentali e il nostro stile di vita. Altro che integrazione».

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