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Damiano: "Il Welfare non si tocca". Altolà a Rifondazione

Muro contro muro nel governo. Ultimatum del Prc sul welfare: o Prodi cambia o lo licenziamo. Ferrero: pronti a dire no al protocollo sul lavoro. Il ministro del Lavoro: il testo resta com’è

Damiano: "Il Welfare non si tocca". Altolà a Rifondazione

da Roma

Che il protocollo sul welfare si sarebbe trasformato in una mina vagante per il governo Prodi era chiaro da tempo. E ieri è stata la giornata del muro contro muro, dentro la maggioranza.
Rifondazione, che sulle pensioni ha dovuto ingoiare la sconfitta, sta facendo della lotta al lavoro precario la sua bandiera. Irrinunciabile: «In tutti i sondaggi che abbiamo è la prima cosa che ci chiedono i nostri elettori, su questo non possiamo mollare», spiegano nel quartier generale del Prc. E dunque «se il governo non cambierà quel testo dovremo trarne le necessarie conseguenze», spiega un dirigente solitamente moderato come Giovanni Russo Spena, capogruppo al Senato. Conseguenze ultimative, perché «per noi il governo resta un mezzo e non un fine: se dovesse diventare un fine, per Rifondazione sarebbe la fine». Ossia, il Prc può davvero arrivare a non votare in Parlamento quel testo, come ha annunciato il segretario Franco Giordano. Il che equivale a dire che si è pronti anche a far cadere Prodi, se il punto chiave dell’accordo (quello sui contratti a termine) non verrà modificato.
Toni ultimativi, che si giustificano col fatto che si è in realtà appena all’inizio di una difficile trattativa, piena di incognite e di scadenze intermedie: il referendum tra i lavoratori di questa settimana, poi il Consiglio dei ministri del 12 ottobre, la manifestazione anti-precarietà del 20 (cui Rifondazione e Fiom contano di portare in piazza «almeno 250mila persone reali», dice Russo Spena), infine i passaggi del testo a Camera e Senato. Il tutto intrecciato a un’altra partita fondamentale per Rifondazione, quella sulla legge elettorale tedesca.
Il governo, pressato da Confindustria e sindacati, replica con la faccia altrettanto feroce: «Quando si sottoscrive un patto con più di 40 parti sociali - fa sapere il ministro del Lavoro Damiano - si deve mantenere la rotta stabilita. E noi lo faremo». Il testo dell’accordo, insomma, non si tocca. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta, è ancora più netto: «Interventi unilaterali non sono possibili».
Apparentemente, è una porta sbattuta in faccia a Rifondazione, che rischia di portare venerdì a un primo risultato dirompente: i quattro ministri della sinistra non daranno il loro voto al ddl. «Non votarlo il 12 e andare in piazza il 20 ottobre sarebbe la pietra tombale sul rilancio del governo», denuncia il mastelliano Fabris. E d’altronde l’incontro di qualche giorno fa tra Prodi e Giordano è «andato male», dicono al Prc: il premier non ha lasciato margini di speranza sulla richiesta di regole che impediscano di rinnovare i contratti a termine per più di 36 mesi.
In realtà, però, sottotraccia si tratterà febbrilmente di qui al 12, sulla possibilità di inserire modifiche parlamentari al ddl. E l’esito del referendum conterà molto: un margine alto di «no» rafforzerebbe le richieste del Prc. Si tratta anche dentro la Cosa Rossa, perché Mussi e soprattutto i Verdi (che Pecoraro, secondo i sospetti del Prc, vorrebbe sottrarre all’abbraccio con la sinistra radical per andare a fare «l’ala ecologista del Pd») sono molto più cauti di Giordano. Il quale è preoccupato soprattutto da quanto un’eventuale intesa di maggioranza su qualche emendamento potrà reggere al passaggio del Senato. Dove Dini minaccia di non votare modifiche neppure con la fiducia.

E dove senza modifiche più di un senatore della sinistra è pronto a votare contro il governo.

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