Roma

Danze tibetane tra cavalli e oche

Laura Novelli

Una massima buddista recita: «Il tempo che non hai dedicalo agli altri». Come a voler dire che il tempo è una dimensione interiore e, in quanto tale, dilatabile nella lentezza di un pensare/agire che presuppone un contatto profondo con se stessi e con l’universo. Mentre assistevamo a Loungta. Les chevaux de vent, l’ultima opera equestre del francese Bartabas e del suo gruppo Zingaro (giunta in Italia dopo una trionfale tournée quale evento di apertura del Romaeuropa Festival 2005), questa frase ci è tornata in mente più volte. Non solo perché il complesso allestimento, un misto di danza acrobatica, arte circense, ritualità antica e giostra rinascimentale, vuole essere un effettivo omaggio al Tibet e alle atmosfere mistiche dei conventi buddisti. Ma anche perché la prima impressione che se ne ricava coincide proprio con una sospensione spazio-temporale dove confluiscono tensioni spirituali e riferimenti laici, immagini simboliche e fisicità enfatizzate, musica sacra ed esercizi virtuosi: un coraggioso accostamento di contrari che restituisce l’idea di una fusione «panica» tra uomini e cavalli (e, più in generale, tra individuo e cosmo) scandita sui ritmi lenti di una preghiera.
Il tutto ha luogo in un’arena circolare di sabbia (siamo sotto un capiente tendone allestito all’ippodromo di Tor di Valle), circondata dal pubblico e da due tribune dove siedono dieci monaci provenienti dal collegio tantrico di Gyuto. Spetta a loro dare il via all’evento: attraverso l’intonazione di canti liturgici difonici ci introducono in una storia archetipica di nascita, morte e reincarnazione che si concretizza in linguaggi e momenti espressivi differenti. Ci sono cavalieri che cavalcano splendidi cavalli bianchi. Ci sono figure sciamaniche e personaggi buffoneschi. Ci sono corpi femminili in sella ad asini e destrieri abilmente allenati. Ci sono acrobazie che sfidano la legge di gravità. Ci sono una trentina di oche che corrono a destra e a sinistra, eleganti e poetiche come ballerine classiche. E poi ovviamente c’è lui, Bartabas (al secolo Clément Marty), fantino di prim’ordine, centauro moderno (già autore in passato di creazioni celebri quali Opéra Equestre, Chimère, Eclipse), apparizione misteriosa che in Loungta si concede quadri di solitaria armonia: coreografie avvolte nella penombra dove il cavallo, vigoroso prolungamento del corpo umano, si trasforma in un danzatore capace di movenze leggiadre e di passi fin troppo inconsueti.
Siamo dunque nel recinto di un rito che si celebra in totale assenza di parole e che ispira un senso del sacro. E forse è proprio in questa ambivalenza volutamente irrisolta che lo spettacolo, pur nella bellezza visiva della sua architettura, nasconde qualche ambiguità. Come se, in fondo, tra il misticismo buddista che lo pervade e la presenza di cavalli e cavalieri votati a fare sfoggio di «extra-ordinarie» esibizioni fisiche non sempre sia possibile trovare un legame, un equilibrio, un comune sentire. Come se, in definitiva, la voglia di «mostrare» non riesca a trasformarsi in capacità di «dire». Fino al 19 ottobre. Informazioni al numero 800.

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