Direttore Antonio Polito, il tuo «Riformista» lo ha prima definito Re Franceschiniello, poi semileader. Povero Dario, morirà di fuoco amico.
«Se lo abbiamo fatto non è tanto per il nuovo segretario del Pd, una persona degna di stima, ma per il tipo di risposta che ha dato il partito alla sua crisi, una semi-risposta».
Matteo Renzi dice che «se Veltroni è stato un disastro, hanno eletto il vicedisastro».
«Non arrivo a tanta cattiveria, ma è vero che se Veltroni va via denunciando il proprio fallimento, ti aspetti che come minimo si cambi linea».
Se è per questo, Franceschini ha rivendicato tutti gli errori di Veltroni.
«Walter ha detto cose ben precise: ha indicato responsabilità di altri, e s’è anche assunto le proprie. In che cosa il numero due dovrebbe essere meglio del numero uno? Se si va avanti come prima...».
Il Pdl dice anche peggio di prima, a cominciare dall’antiberlusconismo.
«Con i chiari di luna che ha, Franceschini si attacca a quel poco che ha. S’è richiamato agli unici massimi comuni denominatori del Pd: la Costituzione e l’anti-berlusconismo».
Passi per la Costituzione, ma l’anti-berlusconismo da tempo non fa neppure breccia nell’elettorato. Forse qui sta un nocciolo del problema.
«Sì, il Pd non ha mai fatto i conti con il quindicennio berlusconiano».
Un Moloch che ha fatto fuori l’intera classe dirigente dell’opposizione.
«Faccio spesso l’esempio di Obama: nato nel ’61, si è formato politicamente durante l’era reaganiana, e Reagan per lui era un dato di fatto. Il problema sta nel fatto che questi del Pd sono tutti nella politica da prima dell’avvento di Berlusconi. Parlano di un Paese che non c’è più, non s’interrogano su come sia cambiata l’Italia nel frattempo, di come Berlusconi abbia anche interpretato l’Italia che stava cambiando. Invece di darlo per scontato, fanno la battaglia sulla legittimazione democratica di Silvio».
Pure il giovane vecchio Dario.
«È anagraficamente giovane, ma la sua cultura politica è quella del compromesso storico, nata negli anni Settanta, dunque ben prima di Berlusconi. Uno come Renzi, per esempio, non ha vissuto la stagione del Pci e della Dc, e ragiona in modo completamente diverso...».
Dunque non c’è speranza di una leadership davvero nuova, dice lei.
«Finché non arriveranno ragazzi nati dopo, che non facciano battaglie di un’altra epoca, ma di questa».
La malattia lo sta portando alla tomba, e il Pd si cura con l’omeopatia. Dovevano fare un congresso.
«Già, il primo della loro storia. Le primarie avrebbero riproposto questa modalità nella quale manca una discussione vera, approfondita, ampia. L’unico mezzo per dare identità e linea al partito: servono una maggioranza e una minoranza, chiare e definite. Invece, dalle alleanze ai temi della bioetica, si preferisce il tiremm’innanz purché nulla cambi, e si dia una falsa idea di unità».
Gli è rimasto nel dna il centralismo democratico del Pci.
«Ma il Pci era più democratico, perché nel comitato centrale i capi se le dicevano apertamente e con durezza, poi all’esterno la consegna era l’unanimismo. Ma almeno discutevano, nel Pd le decisioni sono prese da gruppi ristrettissimi. Mi auguro però che il Pd esca presto fuori da queste secche. Non è un bene per il Paese avere un’opposizione così debole».
Sarebbe servito Gianfranco Fini.
«Il Giornale mi ha rubato un’idea stimolante, che avevo avuto modo di dire anche in tv: Fini è un leader senza partito, il Pd un partito senza leader. Due orfani, sarebbe stata perfetta una joint-venture».
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