Ho un solo telefonino ed è fin troppo. È una vecchia cipolla Nokia che ho comprato per sfinimento una decina di anni fa, pesante da matti e con il coperchio del Milan. Quando la tiro fuori dalla tasca, magari in metrò, si girano tutti anche perché la suoneria è la sigla di Tutto il calcio minuto per minuto e non ho ancora capito adesso come si abbassa quel cavolo di volume. È come avere un orologio da taschino, un monocolo con la cordina, un cappello sulle ventitré. Non scatta fotografie, non naviga su internet, non ascolta la radio, non fa il caffè. E per essere sicuro che non mi rompano le palle lo tengo spento. Non ho nemmeno il telefono aziendale, e forse sono lunico, il telefono fisso lho disattivato quattro anni fa quando ho cambiato casa, al centralino del giornale se chiedono il mio numero, non rispondono mai, spiacenti, ma non glielo possiamo dare, ma ci creda non lo sappiamo nemmeno noi.
Lo uso, toccandomi, per le emergenze, per convocare una volta ogni tanto gli amici per il pallone, per comunicare qualche novità alla famiglia, per lavoro se capita. Cioè lo stretto necessario, passo giorni senza nemmeno un sms, tranne quello che mi avverte «il tuo credito sta per terminare, ricorda con Banco etc. etc. puoi ricaricare comodamente da casa». E non ne ho spedito uno che è uno. Il cipollone è lì in caso di bisogno come lestintore allangolo del corridoio ma non per questo di estintori ne ho tre, non per questo passo il giorno a spruzzare quelli che passano con lidrante perché fa trendy, anche se con qualcuno lo farei volentieri. Tipo al tipo che ha il taschino che suona il secondo movimento della Settima di Beethoven nella versione Deutsche Grammophon di Von Karajan. E poi ti chiede: ma è il mio o è il tuo?
Il telefonino è come le sigarette, sembra che non ne puoi fare a meno, ma non è vero, quando smetti ti chiedi come hai fatto a essere così idiota per tanti anni: è una patologia del benessere, una crepa nelle relazioni sociali, una malattia neurodegenerativa, è lalleato di tutte le scuse, di tutte le bugie, di tutti i silenzi, di tutte le vigliaccate. Ci lamentiamo di non avere tempo per le cose che contano e poi riempiamo il tempo di conversazioni di scarto. Perché a questo serve un cellulare. A tirarsela e scriversi stronzate. Figuratevi tre. I pasdaran del parlare a vanvera dicono che sei superato, ma è una stronzata pure quella. Siccome ci sono dentro loro è figo per forza. Come al cineforum del professor Guidobaldo Maria Riccardelli: bisogna esserci tutti a vedere la corazzata Potemkin.
Prendi la giornata del centauro mezzo uomo e mezzo Motorola: apre gli occhi e si collega a Instant Messangers solo per dire al mondo che si è svegliato, legge i commenti lasciati sul blog, controlla i messaggi Dodgeball sul cellulare visto che ha collegato la sua comunità on line al telefonino, clicca sul «Chi mi ha visto» di Friendster per vedere se qualcuno che non lo conosce è andato a vedere il suo profilo, fa un po di surf sulle facce di Facebook, butta un amo su Match.com, chissà se quelli di Fark.com sono tipi che fanno al caso suo, chissà se vale la pena di aprire un profilo su Plazes.com sempre che lindirizzo Gps non finisca sulle mappe di Google. Poi esce di casa e nemmeno saluta sua madre. E accende gli altri tre cellulari. Sarà ma da quando telefonino e rete hanno avvicinato i popoli in giro vedi solo facce incazzate, piene di acido, da guerra permanente non dichiarata, ti accoltellano per un parcheggio, ti danno fuoco alla casa se hai il volume alto, o se dormi su una panchina, persino quello che guida lautobus si droga.
Cinque cellulari per incontrarci senza vederci, parlarci senza dirci, toccarci senza toccarci, raccontarsi senza conoscersi, miliardi di parole non dette, di gesti mancati, di progetti che non si realizzano, dove non si capisce mai cosa conta, cosa è veramente importante. Scusate, non ho tempo per il cellulare. Meglio farsi tre amiche di tre cellulari. Anche di mezza tacca.
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