Daverio e l'arte dal balcone: «Ma questo Museo è da rifare»

Il critico: «Da Pellizza a Fontana, racconto una storia di velocità e contrasti. E chi ricorda più Mazzoni?»

Il sogno dei comizi dal balcone, a noi che siamo di connessioni neuronali elementari, fa venire in mente Mussolini. C'entra anche l'architettura fascista con la lezione che Philippe Daverio terrà questa alle otto e mezza in piazza Duomo, affacciato dalle balaustre dell'Arengario, con vista su Palazzo Reale. «Un comizio artistico» dice l'oratore. È al Museo del Novecento questa lezione da scuola peripatetica. Tutto oro? «Senza dire una cattiveria, è una raccolta di fondamentale importanza che spera un giorno di diventare un museo. Oggi in certi punti sembra il Guggenheim della Ghisolfa» dice Daverio con sarcasmo a prova di sponsor. Il Museo rimarrà aperto gratis grazie a Sisalpay dalle dieci a mezzanotte.

«La mia sarà una sorta di predica dal balcone sul Museo del Novecento, che racconta l'energia della città di Milano dal primo divisionismo di fine Ottocento al futurismo e alla fine della seconda guerra mondale, quando questa città era luogo centrale della creatività mondiale. Dal punto di vista storiografico è il terzo o quarto museo d'Europa. Certo meno importante del Louvre o della Tate, ma non si può capire l'arte del ventesimo secolo senza passare da Milano» sostiene il critico.

C'è avanguardia e gusto casalingo ed è anche su questa continuità di contrasti che Daverio arringherà dal balcone. «Da Pellizza a Fontana, e tra loro tanti altri che hanno lasciato un segno, non è un percorso da poco. La distanza tra Pellizza e Fontana fa capire che si tratta di mezzo secolo nel quale la storia accelera. Si capisce il futurismo, la prima guerra mondiale, l'Italia confusa dell'età fascista, il passaggio da un paese agricolo a una capitale dell'economia mondiale».

Critico dalla lingua acuminata quando si tratta di quel che e quel che potrebbe essere il Museo. «Bisognerebbe migliorare molto l'allestimento e la gestione, ma non faccio più l'assessore. Posso dire che l'allestimento è un po' raffazzonato, molto punitivo rispetto all'architettura dell'Arengario. E l'architettura si vendica. La bellissima sala delle colonne è stata trasformata in una sala di scatoline. Quando l'architettura è maltrattata, il pubblico sente il disagio». Ed eccoci al punto forse più dolente: «Anche la contorsione della salita, al mio gusto un po' claudicante, sembra un Guggenheim della Ghisolfa. Le cose per fortuna possono cambiare».

Questo maltrattamento dell'architettura è il peccato originale dal quale discendono gli altri mali, inclusi i milanesi che non si affezionano: «Tra l'importanza della collezione e la consapevolezza della comunità milanese c'è una distanza da colmare.

Un vero museo avrebbe bisogno delle energie della musica, da Puccini a Dallapiccola, dell'evoluzione formidabile della scrittura da Gadda a Moravia. L'arte è questa mescolanza, non solo gallerie. Chi si ricorda più chi era Mazzoni? Eppure ha fatto tutte le Poste per lo Stato italiano...». Sotto il balcone anche per ripassare.

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