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David MaraVilla ma non troppo, è l’anticampione che oscura Messi

Il bomber bambimo che fa sognare la Spagna. Con le sue 4 prodezze, l’attaccante asturiano ha messo in fila i protagonisti del mondiale. Sbaglia i rigori, non è un leader, non ha un gran fisico ma è diventato l’erede di Raul

La mosca sotto il labbro. David Villa è un bambino cresciuto. Gol, gol, gol, gol. Quattro. Abbastanza per essere già il padrone di mezzo mondiale. Lui e Higuain, poi niente. Perché si segna e si gode dalle parti di David che a differenza di Gonzalo non ha fatto gol facili. Lui parte largo, s'accentra, tira. Oppure s’infila in mezzo a due avversari e li salta. La semplicità è un'altra cosa. È un rigore, cioè l'unico errore di Villa fino a questo momento. Dimenticato. Perché se porti da solo la Spagna ai quarti di finale nessuno si ricorda più di quella palla rasoterra finita fuori. Sarebbe stato il quinto, sarebbe stato un altro punto per avvicinarsi alla gloria eterna, Raul.
Ha già vinto, David. Gli mancano almeno cinque anni di Spagna e a questi ritmi quella cifra sarà praticamente doppiata. David non si frena. Vede la porta e sente il pallone: destro, sinistro, forte, preciso. La mette come vuole, la mette come richiede l'occasione. È come quando l'allenatore delle giovanili diceva ai ragazzi: «Se siete in difficoltà datela a David. Ci pensa lui». Succede nel basket quando hai solo l'ultimo tiro. Succede anche nel calcio con questo ragazzo delle Asturie che non era esattamente il personaggio più in vista di questo mondiale. È arrivato da capocannoniere dell'Europeo, eppure a riguardare le previsioni, a sentire gli esperti, a farsi raccontare dagli opinionisti c’era un bel filotto davanti a lui: Messi, Ronaldo, Kakà, Drogba, Rooney, Torres, Iniesta, Fabregas, Xavi. Sono dietro adesso, aggrappati ai piedi e al corpo di questo ragazzo che ancora tutti chiamano guaje, che in asturiano significa bambino. La mosca se l'è fatta crescere per dimostrare d'essere un adulto, per raccontare agli altri e a se stesso che questa è l'età della maturità. Lo fa coi gol, la merce di cui dispone, il mezzo che usa per presentarsi al mondo. Quaranta milioni di euro il suo valore. È il prezzo che il Barcellona ha appena pagato al Valencia per prenderlo e per dire sottovoce a Zlatan Ibrahimovic che quest'anno non sarà più titolare. Arriva da Guardiola per fare quello che ha sempre fatto: segnare. Perché Villa non ha il fisico di Torres, né la potenza di Drogba, né la tecnica di Messi, né la figaggine di Ronaldo, però ha sempre fatto gol: trentotto nello Sporting Gijon, trentadue nel Real Saragozza, centootto nel Valencia. Mai meno di quindici a stagione negli ultimi cinque anni.
Villa è una pistola ad aria compressa puntata sempre sulla porta. Segna perché lo sa fare, nonostante da ragazzino gli avessero sconsigliato di giocare in attacco perché era troppo piccolo. O forse proprio per quello. Villa è un altro che s'è riscattato, uno che ha usato un pallone per vincere nella vita: aveva già il destino del minatore. Dove è nato lui, a Tuilla, fanno praticamente tutti quello. È il cuore della conca delle miniere d'Asturia. Il bisnonno di Villa era muratore, il nonno di Villa era minatore, il padre di Villa era minatore. David ha scavato dentro se stesso e ha trovato la forza di giocare nonostante lo scetticismo. «Se non fosse stato per mio padre, avrei mollato molto presto». Invece eccolo. Villa MaraVilla, come lo chiamano tutti, come martedì sera urlavano per le strade di Madrid gli spagnoli che hanno visto la partita contro il Portogallo. Come scrivono tutti i giornali. La sua foto è sul Pais, sul Mundo. Eccola su Marca sotto il titolo «Questa è la mia Spagna». E' vero. Lui non lo dice però non può che pensarlo: Torres è un fantasma, Iniesta è mezzo infortunato, Xavi è un fenomeno ma non è lo stesso del Barcellona. Villa è tutto. Una speranza a cui aggrapparsi in ogni momento del match.
Hombre del partido. Hombre di tutte le partite, come ha scritto Gabriele Romagnoli. Lui che è il contrario dell'iconografia del leader. Non ha il portamento, non ha la faccia, non ha il fisico del capo banda. Piuttosto assomiglia a quel monello usato per devastare la pazienza dell'avversario. Villa è un fenomeno da seconda linea, una specie di contraddizione che rende palese il paradosso del pallone moderno: tutti aspettano el niño Torres e si trovano el guaje. Bambino uno e bambino l'altro: significano la stessa cosa, ma adesso vogliono dire il contrario. Uno che non riesce a giocare, non riesce a segnare, non riesce a vivere; l'altro che fa tutto alla perfezione. Poi però firma gli autografi e Villa quasi scompare dietro a un pullmam. Come a dire: David tira meno, ma segna di più. Non fa niente.
É abituato: è così da sempre, visto che lui e Fernando hanno giocato insieme in tutte le giovanili e poi hanno esordito lo stesso giorno in Nazionale. Segnare è vivere, ha detto in un'intervista di qualche tempo fa, facendo sobbalzare i cattolici spagnoli inorriditi dal paragone. Lo pensa, David. I gol come forma di esistenza. I gol come surrogato della felicità, perché poi quando parla di sé arriva esattamente dove i cattolici che lo criticano vogliono che arrivi: a casa. Non esiste il calciatore che gira con una donna al giorno. A 28 anni Villa è sposato e ha due figli. Fa il sentimentale ogni volta che glielo chiedono. Che cos'hai lì, David? «Sulle scarpe ho da una parte i nomi delle mie figlie, Zaida y Olalla.

Dall'altra le iniziali D&P, David e Patricia». Un'immagine, un mondo: lui col pallone tra i piedi, significa lavoro, passione, sentimenti, famiglia, futuro tutto insieme. Poi di fronte c'è la porta. Per prendersi quel futuro, David Villa deve solo entrare.

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