
da Verbier
Il tempo di varcare la soglia della cittadina e ti imbatti in un tizio che cammina digitando sul telefono: come tutti noi, ma a modo suo. Molto suo. È Trifonov, il pianista dei pianisti. Passa un minuto e spunta un altro personaggio, cammina passando un'asta da un braccio all'altro, concentrato sul suo esercizio. È Kissin, di fatto soggetto a tendiniti. Altro pianista da urlo. Entri in hotel, sali in camera, e dal vicino esce una Ciaccona di Bach da manuale: che cavata, che suono, che tecnica. È Kavakos, punta del violino mondiale. That's Verbier.
Altstaedt, Argerich, Babayan, Borisov, Bouchkov, Buniatishvili, Capuçon, Currentzis, Fujita, Gringolts, Jansen, Lozakovich, Maisky, Mäkelä, Malofeev, Yunchan Lim, Shani. Sono alcuni dei nomi del Festival di Verbier (fino al 3 agosto), ai suoi 31 anni: un concentrato di musica classica concerti, masterclass, due orchestre in residenza ad alta quota e ad altissimo livello. Siamo nella cittadina svizzera dal metro quadrato più caro delle Alpi, con una frenesia immobiliare che si traduce in gru e cantieri ovunque, e chalet fiabeschi che si arrampicano sui pendii, quasi fino ai campi da sci.
Martin Engstroem, fondatore e regista della macchina, ha fatto di Verbier una mecca della musica. Ha creato un sistema. Interpreti che tornano ogni anno, nonostante cachet modesti, relazioni fitte col territorio, e soprattutto un bacino di mecenati che, dopo l'ultimo concerto, aprono i propri chalet a cene con artisti e amici. Si ravvivano relazioni, con il bonus di avere a tavola i propri idoli. Fino al 2022, il grosso dei sostenitori parlava russo molti arrivati al seguito di Gergiev, allora demiurgo del festival. Oggi, senza troppi drammi, sono stati sostituiti da orientali. La geopolitica si sente fin quassù. A Verbier si incrociano leggende e astri nascenti, docenti, discografici, manager. Una piattaforma di lancio per i giovani e di conferma per i veterani. Anche per questo sorprende quando il nuovo Sinner del proprio strumento (non faremo nomi: verrebbe sbranato vivo), osserva: "In Italia non sto suonando, e mi dispiace. Mi dicono che non ci sono grandi orchestre". E la Filarmonica della Scala? Santa Cecilia di Roma? "Buone. Ma non al top". I colleghi annuiscono. Una doccia fredda, ma anche lo spunto per riflettere sul caso delle orchestre italiane che non giocano nei campionati di prima fascia. A dire il vero, mancano anche i solisti italiani nel cartellone di Verbier. Perché? I talenti non mancano da Rana e Pagano a Gibboni ma spesso restano cattedrali nel deserto, privi di quell'ecosistema che, altrove, fa la differenza. Prendete Mao Fujita: bravo, non un fuoriclasse però. Arriva con pianoforte Made in Japan, un Kawai, e pubblico al seguito. I coreani, poi, fanno tifo da stadio per i propri: Yunchan Lim è una rockstar, si imbarcano, volano, applaudono, seguono, non solo online. Un patriottismo musicale attivo, concreto, organizzato. I nostri? Lasciati soli. Anche con un management spesso artigianale, in un mercato spietato. Capitolo Russia, bacino di musicisti eccellenti. I giovani russi vivono ora per motivi diversi dai nostri una stagione grigia. Gergiev ha lanciato praticamente tutti gli artisti spuntati negli ultimi trent'anni, da Netrebko a Trifonov, che portò in giro per il mondo con il Marinskij. Solo per fare un nome. Ora molti riparano a Berlino, da Malofeev a Borisov. E quando ascolti il Trio n. 2 di ostakovi (1944), con Argerich al pianoforte e i fratelli Capuçon, tra tempi feroci, ghigni sardonici, spettralità improvvise e sofferenze che si tagliano col coltello, ci leggi anche l'animo in subbuglio dei giovani russi di oggi.
Concentriamoci su Trifonov, una forza della natura. Unico, anche in un contesto stellare. Entra nella tastiera e ne esce sfinito, barcollante. Suona come se fosse in trance, i suoi recital sembrano sedute spiritiche. Dopo averlo ascoltato, il resto del mondo pianistico sembra in bianco e nero. Accasato a NY, è russo fino all'ultima cellula. In tempi di globalizzazione, le scuole si confondono, ma la sensibilità d'origine resta.
A Verbier si incontrano musicisti e famiglie. Trifonov viaggia con moglie e figlio, 4 anni e gli occhi vispi di mamma, segue il concerto di papà stringendo un aeroplanino. "Al momento non studia, si gode la musica", dice la mamma, anche lei pianista, dunque consapevole di cosa comporti lo studio di uno strumento. C'è Babayan, il maestro-padre ombra. Mäkelä, il giovane direttore più acclamato del momento, presto alla guida della Chicago Symphony (succedendo a Muti), è il mattatore del cartellone: così presente che c'è chi ipotizza possa subentrare a Gergiev, la casella rimasta vacante. Gira con la nuova fiamma dopo la rottura con Yuja Wang: leader anche nel privato, dopo un concerto mattutino a pranzo ordina Champagne. E poi la tribù Kissin: moglie, amica della moglie, zia, e via così. Idem per Maisky. Argerich, infine, è la dea assoluta, 84 anni e pantera come non mai.
Verbier, Champagne e stelle, e termometro di come vanno le cose
nella musica d'arte. Gli italiani restano comparse nel grande gioco internazionale. Mentre altrove il tifo è orgoglio nazionale, da noi si naviga a vista, tra speranze e management fai-da-te. Il talento c'è, ma non basta.