Il day after di Ruini, tra sorrisi e fughe silenziose

nostro inviato a Cernobbio

Si è materializzato all’improvviso, cosa che non stupisce in chi, come lui, in un solo giorno ha ben più consuetudine con l’Altissimo di quanta ne potremmo mai avere in tutta una vita noi, comuni mortali. Era da solo, senza scorte né segretari. Una figurina fragile, quasi senza peso, resa ancor più esile dal clergyman nero. È cominciata così, per il cardinale Camillo Ruini, la sua prima volta al Workshop Ambrosetti di Villa d’Este, raduno annuale di ricchi, potenti e famosi del mondo intero. Assise di per sé laica e dove di norma, più che a rivolgersi a Colui che va scritto maiuscolo, quello che sta lassù, si spendono parole a discettare di quell’altro, quello minuscolo, il dio denaro.
«Eminenza, una parola, sono un giorna...». L’approccio del collega è rimasto lì, a mezz’aria, monco di quel «...lista» che avrebbe dovuto esserne la naturale coda. Perché con un benedicente «Ah, bene», accompagnato da un serafico sorriso, il cardinale si è dileguato più veloce di com’era apparso, infilandosi nel salone ristorante riservato alle autorità. Lì, seduto a un grande tavolone ovale, tra il premio Nobel americano Gary Becker (studioso del cosiddetto «capitale umano»), alcuni minuscoli ospiti orientali, il presidente di Borsa italiana Angelo Tantazzi, il «compagno» avvocato Guido Rossi e l’altro Letta, il nipote, l’Enrico, insomma quello del Pd, il cardinale ha piluccato, ma ovviamente servito a tavola, lo stesso identico menù che tutti gli altri - marmaglia di cronisti compresa - poteva assaporare al self service e in dislocazioni dallo standard via via differenziato per rango.
Di che cosa avranno parlato fitto fitto e tanto a lungo l’Eminenza e il giovane Letta, seduto proprio alla sua destra, non è ovviamente dato sapere. Molto probabile, però, che tra una forchettata di risotto con pesce persico alla Comacina e un assaggio di ossobuco in gremolata, il filo del discorso abbia abbandonato per un attimo la limpidezza del lago manzoniano per scivolare su note e recenti vicende molto meno trasparenti. Là dove si parla di molestie e di moralisti senza morale, di giornali che amano salire in cattedra e di altri che chiudono gli occhi anche davanti ai fatti.
Di che cosa abbia discettato invece poi, dopo il caffè e le friandises, il cardinal Ruini in veste di relatore al di là delle porte chiuse del workshop lariano, qualcosa siamo riusciti a saperlo. Almeno il succo, che del resto è stato tanto e di rilievo. L’ex presidente della Cei ha incentrato infatti la sua relazione sul deprimente andamento demografico nazionale, da lui definito «problema centrale dell’Italia» in quanto «implica conseguenze molto pesanti sul lungo periodo, con ripercussioni importantissime sulla società». Problema che per essere risolto richiede da un lato «sul lungo periodo e in modo costante interventi statali dal momento che le nuove generazioni vanno considerate come un bene pubblico», e dall’altro lo svilupparsi «di fattori culturali fondamentali» per reintrodurre nei giovani valori perduti come la fatica e il sacrificio, sconfiggendo al contempo il diffuso «individualismo egoista» e la tendenza «ad avere più che a essere». Il cardinale ha invece invocato che gli italiani «ritornino a considerare i figli come la più grande gioia umana della vita».
Sul perché poi questi provvedimenti non siano stati ancora presi, Ruini non ha dubbi.

Tre, a suo dire, sono le cause: un’ormai del tutto immotivata paura della classe politica ad attuare misure che possano tirarsi addosso l’accusa di assomigliare alla propaganda demografica del fascismo; l’aver dato credito che questi problemi in fondo si risolvano da soli; terzo e ultimo, la tendenza dei politici ad affrontare sempre e soltanto i problemi a breve termine.
Sacrosanto. Ma più certo facile a dirsi da parte di chi, come un cardinale, ha ben più dimestichezza di noi e di chi ci governa con quel mistero chiamato eternità.

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