Boia chi molla. Luigi De Magistris, eurodeputato dell’Italia dei valori, noto al grande pubblico per una burla giudiziaria a nome «Why not», non è un boia. E non molla. Non molla la cadrega di eurodeputato anche se, essendo stato rinviato a giudizio, avrebbe il dovere di farlo. Perché così dispone il codice etico e d’onore del suo partito (quello dei «valori»), il capataz del suo partito (quello della Mercedes), la direzione del Fatto quotidiano (il mattinale dei giustizialisti manettari) e la meglio società civile, ovvero la parte sana della nazione. Eppure, «non posso e non voglio mollare», risponde De Magistris a chi, ricordandogli le virtù civili della coerenza, sollecitava le sue dimissioni.
Il perché non vuole mollare è presto detto, basta fare due conti: 14mila euri per 12 uguale 168mila. Centosessantotto mila per cinque uguale 840mila. Tanto, in euri, si mette in saccoccia un eurodeputato nei cinque anni - garantiti - di eurolegislatura. Tanto si mette in saccoccia Luigi De Magistris, al quale ovviamente non passa nemmeno dall’anticamera del cervello di spegnere il motore finché il tassametro gira. Il perché non può dimettersi è più articolato e ricco di sorprese. Tre sono gli assunti, il primo dei quali sembra uscire dalla bocca di un noto nemico del popolo, della democrazia e della Costituzione: «Sono uno dei pochi che ha denunciato la questione morale in magistratura»; «Solo i procedimenti penali nei miei confronti negli ultimi 3 anni sono circa 50»; «Sarà difficile che riesca a uscire indenne dallo tsunami (giudiziario) abbattutosi su di me»; «Il rischio è quello di procedimenti penali artatamente confezionati». Le ragioni del Cavaliere, da sempre ritenute dai paladini della legalità pretestuose se non ridicole, assumono così e grazie all’autorità orale di De Magistris la dignità della denuncia civile, oltre che di genuina, veritiera e condivisibile testimonianza di un odioso accanimento, di una spregevole persecuzione giudiziaria. Il secondo e sorprendente assunto è che si fa presto a dire giustizia. Afferma infatti l’ex addetto ai lavori e provetto cultore della materia, che vige una giustizia bis da lui definita «burocratismo giudiziario». Per meglio spiegarci: se il magistrato incrimina un povercristo per omissione d’atti d’ufficio è giustizia. Se l’incriminato si chiama De Magistris è burocratismo giudiziario. Ovvero giustizia insidiosa, meschina, ricattatoria della quale, va da sé, l’euromilionario custode dei valori si dice vittima.
Il terzo assunto, il più esilarante, si rifà alla cavillosa pratica del distinguo. Dice De Magistris: «La questione morale politica non va ridotta al casellario giudiziario immacolato». Questa è davvero grossa. Non può nemmeno, aggiunge l’ex pm, esser soggetta alle «interpretazioni burocraticistiche» e questa è davvero bella. Mica è finita qui, manca l’acuto finale: «La politica e la legalità devono prevalere sul burocraticismo, assist al sistema contrario al sogno di un paese migliore». Tutta quella fuffa, tutta quell’aria fritta, tutti quei luoghi comuni politicamente corretti, tutto quel discernere, da principe degli Azzeccagarbugli, tra giustizia e «burocratizia» per uscirsene poi con questo distinguo da furbetto del quartierino: «Ricordo che il rinvio a giudizio riguarda non la mia attività di politico, ma di pm». D’accordo, la pagnotta è la pagnotta. Però anche i princìpi sono i princìpi. Coi quali non è che si possa fare il gioco delle tre carte. Al dunque: l’incriminato - e nessuna gabola può convincere del contrario - è il De Magistris politico, non il De Magistris pm.
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