Ora è vero: Deborah Compagnoni sa sciare. Lasciate stare le quattro medaglie olimpiche, i tre sigilli mondiali, una coppa di gigante e i 44 podi in Coppa del mondo. Volere, destino o fortuna, adesso che è diventata maestra di sci pur senza esercitare, che fosse soprattutto bravura lo certifica un diplomino di carta, conservato insieme ai suoi trofei nell'albergo di famiglia a Santa Caterina Valfurva in Valtellina. «Ho studiato un po' di nivologia, meteo, turismo, e poi ho anche preso “ripetizioni” in pista da mio cugino». Si scusa, quasi, la Deborah nazionale: «Sa, certi movimenti base noi in gara li dobbiamo saltare». Per carità, il traguardo innanzitutto. Lo stile verrà dopo? Averne, un briciolo del suo. In pista come nella vita. E un senso infinito per la neve: che fosse mossa o ghiacciata, primaverile o crostosa, Deborah ci volava sopra, con intuito e grazia, ed era un passo avanti alle rivali. Proprio come oggi sta sempre un passo indietro e ti liquida la sua prima manche di vita con lo stesso gesto rapido della mano con cui abbatteva i pali da slalom: «Non parliamo delle medaglie: son cose passate».
Già, peccato che quelle «cose passate» siano tanta parte della storia dello sci. Dai successi al dolore, a quel grido in mondovisione ai Giochi di Albertville nel 1992. Un giorno a medaglia, l'indomani col ginocchio distrutto sotto i ferri. Delle sue medaglie non sa scegliere la più sofferta: dalla «libertà» dell'oro in SuperG alla «liberazione» di Nagano '98 quando «dovevo vincere». Il vero insegnamento era già arrivato con la prima gara importante, i Mondiali junior del 1986. «Arrivai terza - ricorda Deborah -. L'allenatore fu chiaro: sei qui al posto di una titolare infortunata». Da allora mai «tirarsela». «Ero felice se vincevo, ma mi sono anche fatta molto male e così quando le cose andavano bene mi dicevo, “zitta”, che il destino non si accorge di te».
Tutt'oggi, a 15 anni dal ritiro, nessuna ha vinto in Italia come lei. Ha appena compiuto 45 anni e festeggiato pensando anche alla nuova casa nel sud della Sardegna «tutta da sistemare», e «provando a rallentare». Sì, perché «non mi aspettavo di dover essere più “atleta” dopo il ritiro», spiega lei. «Allora se ero stanca rispondevo solo a me stessa, ora in famiglia è uno sport di squadra!». Prima aveva pochi centesimi di secondo per vincere, adesso non bastano 24 ore per gareggiare, pardon, vivere da mamma e moglie. È questo il vero lavoro che si è scelta, dietro le quinte e lontano dalla ribalta. I primi anni dopo le gare non è stato facile nemmeno farsi una sciata con il suo grande amore. È stato lui, Alessandro Benetton, il principe, più che azzurro, bello e sportivo, a presentarle la pianura e quella casa di Ponzano Veneto che da sempre è il loro nido: «La popolarità va gestita: tutti pensano di poter entrare nella tua vita». Aggiungi poi che Miss Compagnoni è diventata Lady Benetton e dal destino ha avuto d'oro anche le nozze, celebrate in America qualche anno fa, quando già le medaglie più preziose per lei ed Alessandro si chiamavano Agnese, Tobias e Luce. Liceo, medie ed elementari: «Un ripasso continuo, esigenze diverse», scherza lei raccontando le tante ore «da taxista» di una mamma «quasi» normale. Via dalla pazza folla: «In passato era un'esigenza, oggi ricerchiamo la normalità perché stiamo bene così». Poi, se capita, all'occasione mondana non si rinuncia, ma i figli avranno tempo per capire e scegliere. Intanto sanno del lavoro di papà e anche delle gare di Deborah: «Non c'erano quando vincevo, è giusto che per loro sia solo una mamma». «Le mie gare? Le hanno viste per caso in tv». Bofonchiando, pare, «ehi, eri forte!». Oggi però lei assicura che il podio sarebbe diverso: «Alessandro è un grande sportivo ed è più allenato di me». Sul podio sarebbe un ex aequo con i ragazzi. Lei si accontenta di fare il jolly e lo spiega. «In casa abbiamo poche regole: la sera si cena insieme, a mezzogiorno chi torna, beh, trova sempre me». Forza della tranquillità in una famiglia normalmente eccezionale. Niente playstation, nonostante i bei giochi sullo sci, si può finire in castigo per aver abusato del cellulare e sul web si naviga ma solo - ça va sans dire - col cronometro.
In effetti la Compagnoni è davvero poco «social», a differenza di altri big dello sport, Alberto Tomba in primis: «Forse Alberto ha più tempo, ma io non riesco: l'unico lusso tecnologico che da sempre mi sono concessa è avere un bel cellulare per fare foto al volo. Stop». Come si fa però a «limitare» i figli nativi digitali? «Cerchiamo di riempire il loro tempo, stando insieme il più possibile». Tu chiamalo, se vuoi, buon esempio. A vederli, i Benetton-Compagnoni, sembrano un'olimpiade vivente: sci, bici e tanti altri sport anche solo da provare. Ma nessuno studia da campione. Un sollievo o un rimpianto per una mamma che ha tanto vinto? «I ragazzi di oggi sono meno liberi, inquadrati anche nello sport, gravati da mille aspettative soprattutto dai genitori». Detto da un'olimpionica fa sorridere: «No, guardi la competizione fa bene, significa porsi un obiettivo e provare a raggiungerlo, confrontandosi con l'avversario, ma io ed Alessandro siamo cresciuti più liberi e con maggior senso dell'avventura». È così che ai baby Benetton non si impone la vittoria: Agnese pattinava sul ghiaccio, «Ma ora sa che se vuole “vincere” con Tucidide e Seneca, bisogna studiare». «Tobias è forse il più competitivo: centrocampista, ogni sua partita sembra un mundial. Luce è una “decatleta” in miniatura: arrampicata, ginnastica, sci». Tutto per piacere. E non per piacersi. Ma le discipline principali di casa sono altre: «L'educazione verso gli altri e il rispetto di sé - spiega Deborah - evitando di omologarsi tanto per piacere “al gruppo”».
Lei dice che tanta saggezza arriva dalla perfetta sintesi fra città e montagna. A Ponzano c'è un grande orto da curare mentre in montagna dai nonni materni il tempo trascorre raccogliendo erbe per la «taneda», l'amaro che si fa ancora in casa, e magari vedendo nascere un cavallino dai vicini. In fondo i ragazzi stanno bene dove c'è affetto, ripete sempre lei. «Abbiamo avuto la fortuna di viaggiare tanto quando erano piccoli: oceano, foreste, deserti». È con loro che Deborah ha capito il mondo, dopo averlo girato fra piste, hotel e palestre. Lei sa di avere avuto molto dalla vita e da 13 anni si impegna nella beneficenza con l'associazione che ha creato con un altro grande dell'«Italsci», Pietro Vitalini. Ogni anno si raccolgono almeno 30mila euro e questa primavera a Monza, nella nuova ala pediatrica dell'ospedale, c'è anche un po' di «Sciare per la vita». Lo sci di oggi le piace, ma passando da campionessa a «sciatrice della domenica» ha capito una cosa: sciare e vedere le gare degli altri in tv non è facile. «Allora ci fermiamo al rifugio per guardare la seconda manche». Oggi le scrivono ancora tanti ragazzini per chiederle consigli nello sci e tutti le sembrano più forti: «Ci sono più forza e potenza per dominare gli sci moderni e le nuove tecnologie incidono sulla preparazione fisica».
Sarebbe felice delle Olimpiadi a Roma «purché si lavori nell'interesse della collettività. A Torino, dopo il 2006, almeno in città è successo, reinventandosi dopo l'eredità industriale». Lei, però, è già contenta della sua piccola «olimpiade» di casa: dallo scorso anno nella sua Valfurva fa tappa la Coppa del Mondo maschile sulla pista che da 10 anni porta il suo nome.
«Un tracciato vario, completo». Voglia di riprovarci in gara? «Mai su quel “mare” di ghiaccio». Sua mamma glielo ricordava sempre: «Deborah, nuota dove si tocca!». E lei, anche se sulla neve è andata molto «al largo», è rimasta sempre se stessa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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