Cultura e Spettacoli

«Debutto col teatro d’opera Poi mi darò al jazz con Fresu»

Il maestro ha scritto il libretto e ha curato la regia di «Titania, la rossa»

da Roma

Giorgio Albertazzi bisognerebbe lasciarlo parlare ore e ore e ore; bisognerebbe lasciarlo arrotare le sue invettive o seguirlo nei ricordi perché intanto lui ci casca dentro, ovunque, con la lampada del genio. «Non fidatevi di me». Ci fosse un prototipo di attore di teatro, e magari c’è, sarebbe come lui: grande senza esser mai cresciuto, cioè infantile negli entusiasmi, intollerante nelle convinzioni, maniacale, compiaciuto, seduttivo. «Non fidatevi di me, sono come l’araba fenice». Ha 83 anni, che è l’età giusta per un debutto: «Non avevo mai fatto l’autore d’opera», dice seduto in poltrona nella sua casa di Roma. Chi l’ha visto l’altra sera, al Teatro Municipale di Piacenza alla prima assoluta della sua Titania, la rossa, l’ha sentito ridere e sacramentare come se non fosse regista e autore del libretto ma spettatore altro da sé, essendo dentro l’opera ma rimanendone fuori per sentirne i profumi, e anche gli odori altrimenti, come ha detto, «mi annoio a morte, non mi riconosco». Per riconoscersi bisogna guardarsi da fuori, uscire dalla propria arte e specchiarvicisi dentro. Forse per questo, lui, non si trucca mai quand’è sul palco. «Siamo andati bene anche se alla prima c’è sempre un po’ di approssimazione, soprattutto perché nei teatri d’opera è difficile mettere insieme gli attori, un coro di trenta voci, un’orchestra di ottanta elementi». Certo, certo. «Ottavia Fusco è brava, forse ha usato un registro troppo basso ma era sorprendente di fianco ai cantanti impostati. E le musiche di Liberovici le sentivo troppo mélo, io amo Bernstein». La Titania, la rossa è nata di notte - dopo le recite di Salomè o delle Memorie d’Adriano, arrivate a seicento repliche, dicesi seicento - «e l’ho scritta in una specie di trance». In un accampamento di zingari lungo un fiume ai margini di una metropoli nasce Fortunio, bambino conteso. Il sindaco approfitta della questione per cacciare i nomadi, Albertazzi per infervorarsi in un pistolotto ecologista (déjà vu) che poi sconfina nelle adozioni, nella tesi laica e lecita che «i figli sono di chi li ama». Giorgio Albertazzi, ora, dorme da solo perché, come ha detto a Giancarlo Dotto sulla Stampa, «dormire con me sarebbe l’inferno». E forse per questo gli è venuta in mente la storia di quel Fortunio che è di chi lo ama, non della mamma. «Io non piango mai, non ho mai pianto, ma pensando ai bambini, a certi bambini e alla loro sorte pazzesca e meschina, mi viene da piangere. Mi sveglio e piango». È il senso di colpa, più senso che colpa, di un bambino ultraottantenne che sa di avere una sorte pazzesca e grandiosa, un principe del teatro con un palcoscenico lungo da Sofocle fino a Montecitorio: «La scienza non è fermabile: sulle gravidanze, sulle adozioni si andrà avanti, sono inutili le leggine e tutte quelle robe lì. Solo la scienza senza coscienza distrugge l’uomo, perciò l’unica cosa che si può fare è di darle un’anima». Albertazzi ora non parla, scandisce. Ricorda quei grandi vecchi di tutte le epoche, chessò un capo pellerossa, o un Averroè o anche un Cola di Rienzo se avesse potuto invecchiare. S’infiamma: «Siamo all’Impero d’Oriente, l’Occidente è straccio, c’è un’esplosione di pacifismo senza capire che la pace deve essere più combattuta della guerra. Brecht scrisse “beato quel paese che non ha bisogno di eroi” ma non ha mai sbagliato così tanto. Come Marx, lui disegnava un uomo che non c’è». Erano, quelle, belle sinfonie fatte di note che non esistono, ricami di utopie. Musiche. «Adesso voglio iniziare un’altra avventura, voglio tentare di cantare non cantando». A Giorgio Albertazzi piace il jazz. Quand’era ragazzo non era «un buon fascista avanguardista» perché amava gli americani e Dizzy Gillespie. Adesso ha per la mente un progetto con il pianista Marco Di Gennaro, con Uri Caine, con Paolo Fresu. «Ce l’ho in mente, non so spiegare ma lo farò: tanto con Caine e Fresu ho già messo sul palco il Vangelo di Giovanni, ci capiamo». Ma tanto chissà: mai come adesso ad Albertazzi «s’offrono progetti: solo a giugno ho 28 sere piene. Ma poi basta un po’ di tosse per fermare tutto.

Un po’ di tosse ferma tutto, ecco questo è un bel titolo».

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