La tentazione di dedicare un libro è irresistibile. Prima o poi ci cascano tutti. Esercizio narcisistico, dichiarazione sentimentale, riconoscimento, sfoggio di erudizione: ciò che è scritto in quella paginetta iniziale rivela dellautore più di unintera biografia.
I tradizionali. Sono gli autori delle dediche più numerose, ossia quelle ai propri cari. Coniuge, figli, fidanzate, madre, padre, zii e nonni. Se uno ci pensa a sangue freddo, dedicare un saggio sulle malattie renali dei gatti alla moglie rasenta la perversione. Però cè gente che lo fa. Forse come riconoscimento allo spirito di sopportazione del familiare o come dimostrazione che quelle serate passate in ufficio a correggere bozze non erano una scusa per uscire con lamante. Uno per tutti: Niccolò Ammaniti, Come Dio comanda (Mondadori): «A Lorenza, sempre». Non originale ma efficace.
Gli edipici. Sono un sottogruppo dei tradizionali. Questo tipo di autori si concentrano sul padre e sulla madre. Il virus della dedica edipica colpisce in prevalenza gli autori giovanilisti.«A mio padre che è l'uomo che vorrei diventare e a mia madre che non si è mai dimenticata di giocare» scrive Silvio Muccino (in Parlami damore, Rizzoli) e fa il paio con Federico Moccia (Tre metri sopra il cielo, Feltrinelli): «A mio padre, mio grande amico, che mi ha insegnato molto. A mia madre, bellissima, che mi ha insegnato a ridere». La somiglianza è inquietante, che siano fratelli naturali?
Gli espansivi. Sono quelli che se scorri la loro bibliografia scopri lalbero genealogico e la ramificazione delle amicizie e dei conoscenti. Grande grafomane di questo tipo è Salvatore Niffoi. Si comincia dalla dedica «A mia figlia Cristina e a mio padre Nicola» (Il viaggio degli inganni, Maestrale, 1999). Poi è la volta di «Beatrice, al nostro amore» (Il postino di Piracherfa, 2000) seguito da «A mio figlio Emiliano. A Paulina libraio» (Cristolu, 2001). Lapoteosi arriva con La sesta ora (2003): «A Marisa, sorella della mia infanzia tardiva. Ad Antonio, che veste lanima delle nostra terra. A Paolo che con la sua tromba dà voce ai miei fantasmi».
(1. continua)
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