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Il Delta del Po di Mazzacurati amore, immigrazione e violenza

Presentato «La giusta distanza», primo film italiano. Il regista: l’avevo proposto a Venezia, ma non era pronto

da Roma

«Abbiamo mostrato il film al festival di Venezia e ci hanno detto di no». Evviva la sincerità. Carlo Mazzacurati, con la pacatezza che lo contraddistingue, a domanda precisa risponde senza giri di parole: «È vero che l’abbiamo mandato in dvd e con piccole cose mancanti ma il loro rifiuto è stato legittimo. Non ce l’ho con loro anzi, quasi li ringrazio, perché ho avuto un altro mese per lavorare alla post-produzione e sono contentissimo di stare in concorso qui a Roma dopo le tante trasferte veneziane». Sì perché a scorrere la filmografia del regista che dopo 18 anni nella Capitale è tornato a vivere nella sua Padova, si (ri)scopre la sua predilezione festivaliera con Il toro, Vesna va veloce, La lingua del santo e L’amore ritrovato. E ora, a vent’anni dal felice esordio di La notte italiana, con La giusta distanza prodotto da Fandango e Rai Cinema e da oggi nelle sale, torna sul luogo del delitto, quel magnifico delta del Po che, confida, «è un territorio dell’anima, un modo di stare al mondo». Un lembo d’Italia dolcemente accarezzato dalla fotografia di Luca Bigazzi in cui Carlo Mazzacurati dispone sapientemente i suoi personaggi scritti assieme a Doriana Leondeff, Marco Pettenello e Claudio Piersanti.
Film di coppie, la giovane maestra Mara (Valentina Lodovini nel primo ruolo da protagonista) che fa la supplente nel paesino immaginario di Concadalbero e il meccanico tunisino Hassan (Ahmed Hafiene), il diciottenne aspirante giornalista Giovanni (lo studente di medicina Giovanni Capovilla per la prima volta sullo schermo) e il suo capo Bencivegna (Fabrizio Bentivoglio). A sconvolgere l’apparente idillio con tanto di storia d’amore tra Hassan e Mara ecco una tragica vicenda che fa risuonare nello spettatore l’eco mai svanito delle cronache nere degli ultimi mesi, da Erba a Garlasco. «Ma - avverte il regista – non c’è nessuna relazione con questi casi perché la nostra strada è stata un'altra. Nel film il male è infatti qualcosa di banale ed è il contrario dall’efferatezza che di solito viene enfatizzata nelle trasmissioni televisive e si trasforma pure in narrazione seriale nella fiction». Rimane comunque un senso di perdizione in un luogo autenticamente misterioso. «Certo – concorda Mazzacurati – ciò che viene definito con un termine che non amo Nord-Est è il Veneto con la sua storia, la sua riconoscibilità, il suo potere evocativo. Una terra che spesso viene dipinta negativamente come la patria dell'egoismo. Credo piuttosto che sia “solo” infelice come il personaggio dell’arricchito di Giuseppe Battiston che mi genera profondissima tristezza, si impossessa al meglio di quanto il nostro tempo offre ma in realtà ha profondo malessere e solitudine. Il Veneto è ancora un altro dei luoghi italiani sconosciuti a se stessi proprio come raccontava cinquant’anni fa il veneto Guido Piovene in Viaggio in Italia». Valentina Lodovini racconta che non c'è stata preparazione prima del set perché, dice, «sono arrivata poco prima del ciak e Mazzacurati ci ha lasciato carta bianca per improvvisare». Mentre Ahmed Hafiene rivela di aver fatto il meccanico, prima a Tunisi e poi a Padova.

Invece a Fabrizio Bentivoglio spetta il compito di spiegare il titolo del film: «La giusta distanza che un giornalista deve avere dai fatti di cui parla il mio Bencivegna, è solo teorica, scopriremo che l'unico modo di raccontare la realtà è entrare dentro al fatto con anima e corpo».
Come ha cercato di fare Mazzacurati.

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