Il democratico partito degli affari

L’iniziativa per il «partito democratico» è stata lanciata dai prodiani. Anche se si è potuta avviare solo perché Franco Marini e Massimo D’Alema hanno ritenuto necessario procedere. Alcuni osservatori sostengono che Romano Prodi punti sul nuovo partito come salvagente in caso di crollo dell’esecutivo. Non è vero: il premier è notoriamente presuntuoso, non pensa mai di potere essere sconfitto (ricordatevi del 1998), è poi scarsamente capace di strategie politiche ed è consigliato da un Arturo Parisi, uno dei migliori «tattici» in circolazione ma assai schematico nell’offrire visioni di respiro. Dunque dal professore bolognese non verranno mai grandi scenari bensì trovate più o meno retoriche che servono non a preparare prossime fasi ma a puntellare il presente. In particolare Prodi usa oggi il tema del «partito democratico» per incalzare gli «alleati», toglier loro spazi di manovra politica, cercando nel frattempo di aumentare le sue «relazioni economiche». Al contrario sono Marini e D'Alema che pensano che lo scudo del «partito democratico» potrebbe attenuare l'impatto della caduta del governo, data ormai per probabile a breve-medio termine.
Semmai l'ansia prodiana per il partito democratico è alimentata da uno dei suoi punti di riferimento più importanti: Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa. In molti hanno constatato un certo nervosismo nel grande banchiere bresciano. Le ragioni di questo stato d'animo sono evidenti: la fusione tra San Paolo Imi di Torino e Banca Intesa era stata pensata quando Prodi sembrava saldamente in sella. Erano andate bene le comunali e il referendum sulla Costituzione dopo il 9 aprile. La crisi libanese aveva offerto a Roma un certo ruolo. Bazoli poteva dunque ritenere che la sponda politica per il suo istituto fosse sufficientemente solida per lanciarsi in un'operazione, dove il côté bresciano non ha tante munizioni finanziarie rispetto agli altri partner che possono contare anche su amicizie su molti fronti: si pensi a Enrico Salza, Alfonso Iozzo, Franzo Grande Stevens e altri protagonisti «sanpaolini» di questo calibro. Né sono da escludere interventi nella dialettica interna della banca milanese, dove c'è un Corrado Passera da sempre scalpitante (anche per rivalità nei confronti di Alessandro Profumo) per avere più spazio. Ecco perché Bazoli ha bisogno urgente di una nuova rete politica di protezione più ampia del vacillante governo Prodi.
Sarebbe volgare pensare che Gregorio Gitti, quarantenne, bresciano, avvocato e professore di qualità, organizzatore dei comitati della società civile per il partito democratico, sempre più il «vero volto» dei prodiani, si muova solo su input del suocero Bazoli. Sarebbe ingenuo pensare, però, che le preoccupazioni bancarie non c'entrino.
D'altra parte questa caratteristica di intrecci familistici (figli, cognati, assistenti, partner di affari, amici della domenica) segna tutto il nucleo forte prodiano. Deriva da una certa concezione della «migliore politica» come quella prodotta dagli «eletti»: e si sa che nella cultura stessa dell'elitismo, della «superiorità morale», i legami personali (e alla fine famigliari) sono decisivi.

Se si è convinti, poi, di rappresentare non una parte della società con le sue proposte, i suoi limiti, le sue parzialità, ma il «Bene», allora si finisce anche per giustificare scelte meno presentabili come quella appunto di un certo familismo. Per non parlare dell'altro filone «spiacevole» del prodismo, quello dell'affarismo, che in questi giorni tra Autostrade-Abertis, Iran, Alitalia, Telecom, appare sempre più centrale nell'azione del premier.

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