Democrazia illiberale. Ecco cos'è davvero lo spauracchio della sinistra per niente liberale e poco democratica

La formula tanto demonizzata è espressione di un conservatorismo post liberale che vanta decine di studi ignorati dai nostri "esperti"

Democrazia illiberale. Ecco cos'è davvero lo spauracchio della sinistra per niente liberale e poco democratica

Mentre in Italia siamo vivendo in una fase, speriamo temporanea, né democratica né tanto meno liberale, l'evocazione della «democrazia illiberale», lo spauracchio che ha eccitato gli editorialisti progressisti e i politologi di sinistra (cioè, tutti), appare oggi alquanto risibile. Le anime belle del progressismo paventavano che il pericolo per la libertà potesse giungere dai leader democratici, cioè legittimati dal voto, ma fortemente illiberali, quando invece la pandemia ha fatto saltare pure questi schemi: il lockdown più illiberale, quasi alla cinese, è voluto dagli idoli progressisti, i Macron, i Sanchez, i Conte, mentre i «despoti» come Trump polemizzano con i governatori dem assatanati di controllo e il più malvagio, dal loro punto di vista, Viktor Orbàn, ha acquisito i pieni poteri dopo un voto parlamentare, cosa che altrove, e soprattutto in Italia, i democratici liberali si sono ben guardati dal fare. Non sarà che quelli che meno si baloccavano con il termine liberale sono coloro che più hanno interesse a difendere le libertà reali?

Per rispondere a tale quesito vale quindi la pena leggere i teorici della democrazia illiberale, che potremmo meglio definire conservatori post liberali. La formula fu inventata dal giornalista Fareed Zakaria alla fine degli anni Novanta per indicare alcuni regimi del sud est asiatico. Ma è stato il suo uso da parte del premier ungherese Orbàn in un discorso del 2014 a fornirle un nuovo significato e soprattutto a trasformarla nell'obiettivo polemico di centinaia di studi di scienziati politici sempre un po' militanti. Se leggiamo quell'intervento però vediamo Orbàn definire illiberális la demokrácia in quanto propria di una comunità fondata su organici legami sociali e robuste identità cultuali, e non su un assemblaggio di individui: una democrazia comunitaria, non individualistica. Lo stesso Orbàn, negli anni successivi, ha sostituito il termine «illiberale» con «cristiano»: e l'insistenza sulla persona rimanda alle riflessioni degli anni tra le due guerre mondiali di Jacques Maritain e di Emmanuel Mounier, gli inventori della democrazia cristiana.

Chi conosce la storia del pensiero politico scorgerà nei teorici della democrazia illiberale (o post liberale) gli eredi di quei conservatori che nel XIX secolo denunciavano gli effetti distruttivi della modernità sui legami sociali: uno su tutti, Tocqueville, che andrebbe letto per quello che effettivamente scrisse e non per come l'hanno interpretato i liberal. Ebbene Tocqueville visse l'ultima parte della sua esistenza in un regime che era l'incarnazione della democrazia illiberale, il Secondo Impero di Napoleone III, un esperimento che colpisce ancora oggi per la sua attualità. Tocqueville, come del resto tutti ai suoi tempi, sapeva che si poteva essere liberali oppure democratici ma non i due assieme. Liberalismo e democrazia furono del resto sempre in conflitto, e solo dopo il 1945 trovarono una sintesi nella liberal-democrazia o democrazia liberale, che però è andata progressivamente in frantumi, come spiega il filosofo francese Pierre Manent in un'intervista al Figaro del 23 maggio scorso ma soprattutto nel suo ultimo lavoro, La loi naturelle et les droits de l'homme. Non stupisce quindi che la democrazia illiberale sia tema assai discusso nei paesi che la democrazia e il liberalismo hanno visto nascere, soprattutto Stati Uniti e Francia. Altro che demokratura dell'est europea, dei limiti del liberalismo e dei suoi rapporti con la democrazia discutono da anni le riviste più innovative dell'area conservatrice statunitense, da First Things a American Conservative dalla Clermont Review of Books ad American Affairs, tutta quell'area che Sohrab Ahmari, nel numero di ottobre di First Things, ha definito «nuova destra americana». Quattro sono i volumi da leggere per comprendere la teoria di una democrazia post liberale: Perché il liberalismo ha fallito di Patrick J. Deneen, La Grande illusione di John Mearsheimer, Le virtù del nazionalismo di Yoram Hazony e The Demon in Democracy del filosofo polacco Ryszard Legutko - tutti tradotti, tranne l'ultimo, in italiano. Proprio Legutko, nel numero di marzo di First things spiega «perché non sono liberale». Il liberalismo a cui si contrappone non è quello che da John Locke va a John Stuart Mill ma bensì la «superteoria, un onnicomprensivo e obbligatorio modo di pensare che nella società moderna pretende di essere il miglior regolatore della diversità e unica garanzia alla libertà». I conservatori anti liberali (o meglio post liberali) non sono infatti ostili alla libertà ma ne combattono la interpretazione (e anzi degenerazione) affermatasi nell'ultimo secolo, e in particolare dopo gli anni Sessanta. Difendono invece le libertà che esistevano prima del liberalismo, come scriveva Quentin Skinner in La libertà prima del liberalismo. Le libertà fissate dalla Magna Charta, quelle rivendicate da Edmund Burke contro la Rivoluzione francese: le libertà concrete contro quelle astratte della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. La libertà astratta, scrive la filosofa francese Chantal Delsol nel suo Le crepuscul de l'universel, è universalista ed ostile alla natura umana, considerata materia da plasmare per creare un mondo fondato sull'individuo privo di limiti e legami. I conservatori post liberali recuperano invece la legge naturale, ordinatrice di una comunità politica in cui l'individuo sia persona e come tale proiettato verso il bene comune: tutto ciò sarebbe messo in pericolo da un liberalismo sempre più tecnocratico, dominato dai manager, dai tecnici e dagli scienziati (la dittatura della scienza), segnato dalla retorica dell'apertura e del progresso. Il conservatore post liberale rigetta questo tipo di liberalismo, e semmai guarda a quello originario, che cerca di restaurare: in ciò diventando certamente, reazionario, andando cioè alla ricerca degli Dei antichi, come scrive il direttore di First Things R. R Reno nel suo recente libro The Return of the Strong Gods. Quella degli dei è chiaramente una metafora. In realtà i conservatori post liberali sono ancorati alla dimensione di verità del cattolicesimo. Tutti infatti sono robusti interpreti della linea aristotelico tomista, inaugurata da Alasdair MacIntyre nel classico Dopo la virtù. È questa tradizione, Aristotele riletto da San Tommaso d'Aquino, che il giurista ungherese Ferenc Hörcher, nel suo recentissimo A Political Philosophy of Conservatism, pone come base di un conservatorismo che recuperi il concetto antico di prudenza. Quella che un po' frettolosamente viene chiamata democrazia illiberale sembra infine porsi, più di quella liberale, la questione della virtù, un concetto politico chiave dall'antichità fino al Settecento e poi lasciato cadere: ad essa, e finalizzata al bene della polis, dovrebbe essere ispirata l'azione politica. E qui ritroviamo il contributo italiano ad un conservatorismo post liberale: l'ispirazione del Rinascimento che, scrive James Hankins in Virtue politics. Soulcrafts and Statecrafts in Renaissance Italy, vide la più alta riflessione sulla virtù politica. Che cosa si contrappone alla democrazia post liberale, visto che il modello liberal democratico sembra incrinato forse per sempre? Un regime liberale non democratico o esplicitamente anti democratico, caratterizzato dal domino della tecno-burocrazia. Del resto i detrattori liberali della democrazia, eredi dell'ultimo Friedrich von Hayek di Legge legislazione libertà, ormai mettono platealmente in discussione le stesse elezioni: da Contro la democrazia di Jeson Brennan al recente volume dell'economista statunitense Garret Jones che propone un «10% in meno di democrazia».

Discorsi che noi in Italia, con la tradizione del «vincolo esterno» e dei governi tecnici, conosciamo bene, un liberalismo non democratico, non a caso collocatosi quasi sempre a sinistra.

Un esempio di regime liberale ma non democratico lo abbiamo del resto di fronte agli occhi tutti i giorni: l'Unione europea. Derive tecno-burocratiche e ora pure scientiste, tutte anti popolari, a cui solo la democrazia nazional-conservatrice e post liberale può fungere da antidoto.

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