Caro direttore,
vorrei proporre una riflessione ai lettori del Tuo quotidiano, un invito ai mass-media, un argomento agli studiosi della democrazia. Riguarda il bullismo nei partiti.
Sì, lo so, rischio che si parli della solita sparata del solito Storace, ma la questione è un po' più complessa e seria. Il bullismo che è esploso nella scuole riguarda il presunto capobranco che dà ordine di picchiare il presunto più debole e tutti gli altri si girano dall'altra parte. Fatte le dovute proporzioni - ma la democrazia non è principio subordinato ad altri - è, né più né meno, quello che accade nei partiti, in tutti i partiti. Io conosco quello che succede in casa mia - se è ancora casa mia - ma se qualcuno investiga giornalisticamente, scoprirà che accade ovunque. Penso alla Margherita, dove le tessere false - chissà se c'è stata violazione della privacy... - sono sanzionate solo perché scoperte da Striscia la notizia con la semplice espulsione e non con la denuncia alla magistratura; penso ai ds, dove Mussi, Salvi e Villone, ciascuno per proprio conto, sollevano problemi di democrazia interna.
Difficile che se ne occupino Bruno Vespa e Michele Santoro, Giovanni Floris ed Enrico Mentana, men che meno Lucia Annunziata: la parola d'ordine è non impicciarsi, non dare fastidio ai capipartito. Eppure il problema c'è e almeno Corrado Formigli me ne farà parlare questa sera, martedì, a Sky controcorrente.
Che cosa deve fare chi non è «in linea» in un partito non è dato di sapere. Se dipendesse dalla gran parte delle centinaia di sms ed e-mail - impossibile rispondere a tutti - dopo la mia defenestrazione dall'esecutivo politico di An da parte di Fini, la risposta sarebbe una sola: scissione. Ma io non sono Alessandra Mussolini e voglio avere il diritto a condurre una battaglia interna al mio partito nel nome del diritto alla democrazia.
Possibile che non ci sia un solo columnist che abbia a cuore il tema del rispetto delle regole interne ai partiti, che sono fatti di cittadini che, art. 49 della Costituzione, «hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»? Il metodo democratico riguarda solo le elezioni o anche la vita interna delle organizzazioni politiche? Il finanziamento pubblico non rappresenta anche il pedaggio che pagano i cittadini alla democrazia? E se lo intascano i partiti, non debbono anch'essi essere tenuti, più di altri, a rispettare la democrazia al loro interno prima ancora di predicarla all'esterno? Si fa tanta teoria della pratica e scarsissima pratica della teoria.
Eppure, anche in Alleanza nazionale qualcosa si sta muovendo dal basso. Sono rimasto colpito da un dato che non conosce ancora nessuno: domenica scorsa si è celebrato un congresso nella nostra federazione di Crotone, hanno votato poco meno di 500 delegati, il candidato contrapposto a quello di tutte le correnti «lealiste» ha «perso» con il 44% dei consensi. Vuoi vedere che c'è un motivo se non si celebra il congresso nazionale del mio partito?
Ci vorrebbe un tormentone della stampa libera: se uno statuto impone che ogni tre anni ci sia un congresso, nessuno può permettersi il lusso di celebrarne due in dodici anni. Se si ambisce alla leadership di una coalizione, bisogna prima curarsi democraticamente di avere riconfermata quella di casa propria. Anche per evitare ulteriori, spiacevoli polemiche: sarebbe grave, ma profondamente vero, contestare la legittimità di un leader a trattare con altre forze alleate a nome della propria, senza essersi sottoposto al rito democratico del consenso interno. Se ne rappresenterebbe una parte e non il tutto.
È una grande questione democratica, quella che pongo, e che riguarda la natura oligarchica della democrazia italiana, che riguarda ovviamente tutti i partiti e non solo Alleanza nazionale.
Non ha senso parlare di natura fiduciaria degli organi di partiti. Lo Statuto di An è a questo punto esemplare: il presidente nomina i membri dell'esecutivo politico, ma non c'è scritto sulla base di un rapporto fiduciario. Non c'è scritto nemmeno che c'è il potere di revoca. Il perché è presto detto: quei dirigenti possono essere scelti perché fedeli o perché rappresentativi, perché hanno voti o perché semplicemente bravi. E se li scegli te li tieni sino alla fine del mandato che il congresso fa durare in tre anni. A meno che non si sciolga l'organo e lo si rinomini per intero e nemmeno questo è scontato che si possa fare.
Di più: accade, è proprio il caso di An, che l'attuale esecutivo fosse espressione unitaria del congresso di Bologna (2002...). Un tempo c'erano i capicorrente: entrammo tutti nell'esecutivo e non nella direzione, il luogo della discussione politica per eccellenza. Ora, chi è in minoranza, non sta né in un organo né in un altro. E tutti stanno zitti e guardano dall'altra parte: bullismo, appunto.
Suggerimento a chi se ne intende: con il referendum che propone il bipartitismo, l'oligarchia aumenterà il proprio potere.
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