«Le democrazie? Sono in pericolo»

Nel 1983 lo scrittore pubblicava uno dei suoi libri più provocatori. Così rispondeva all’epoca alle domande di un altro grande intellettuale: François Fejtö

«Le democrazie? Sono in pericolo»

Il tema centrale del libro di Jean-François Revel, Comment les democraties finissent, risponde a uno degli interrogativi più attuali: le democrazie devono accettare la guerra per scampare alla schiavitù o accettare la schiavitù per scampare alla guerra? Secondo Revel, le democrazie occidentali hanno ancora il tempo e la capacità di sottrarsi sia alla guerra sia alla schiavitù.
Non equivale, questa posizione, a un ritorno alla guerra fredda, visto che l’alternativa - la distensione - consisteva nel rassegnarsi senza resistenze all’espansionismo dell’Urss, rifiutando nello stesso tempo la dissuasione strategica e l’applicazione di serie sanzioni economiche?
«Più il comunismo dura e più diventa espansionista \ In realtà penso che un raddrizzamento sia sempre possibile. L’obiettivo dovrebbe esser quello di far capire ai sovietici che il proseguimento o l’inizio di negoziati, su qualsiasi argomento, ha come condizione preliminare e irrinunciabile l’arresto definitivo dell’imperialismo comunista, o come lo si vuol chiamare. I totalitarismi diventano assai vulnerabili dal momento in cui vengono comprese le leggi del loro funzionamento. È certo che l’ipotesi dalla quale l’Occidente è partito una ventina d’anni fa, e cioè che concessioni preliminari e offerte generose sul piano economico all’Urss sofferente di un complesso di insicurezza, si è rivelata falsa, avendo al contrario dato una straordinaria sferzata all’energia espansionistica dell’Urss».
Lei sottolinea la vulnerabilità dei mass-media occidentali.
«Il fatto che nelle società democratiche ci sia un’informazione pluralista rappresenta una carta fondamentale in mano ai russi. L’informazione estremamente diversificata di cui disponiamo è fortemente corruttibile, poiché se non c’è corruzione non c’è libertà. Non voglio dire che non c’è corruzione in Unione sovietica, ma non è la stessa. La fame di novità, il fatto che i mezzi di informazione occidentali debbano trovarsi un po’ in contrasto, anche se appoggiano il governo, debbano mantenere un distacco critico per apparire credibili, battere la concorrenza, fare degli scoop... tutto questo rende manipolabili gli ambienti dell’informazione professionale della nostra società». \ «Sembra che i nostri dirigenti ignorino la strategia dei Paesi totalitari. Ignorano che tali Paesi, fondati sull’ideologia, siano vulnerabili nei confronti della propaganda. Ecco perché Bukowski, Solgenitsin e Zinoviev hanno fatto più male all’Urss di d’Estaing, Schmidt e Carter messi insieme».
Lei afferma che per migliorare le chance dell’Occidente ci vorrebbe una profonda riconversione intellettuale. Questa riconversione non tarda un po’ troppo a venire?
«Sul piano dell’azione è forse un po’ tardi, ma credo che la riconversione stia per verificarsi ugualmente.

È vero che spesso si sente ancora trattare Reagan come un fascista solo perché ha detto che l’Occidente deve essere armato almeno quanto l’Urss. Ma nell’insieme la conoscenza dell’Urss e la volontà di resistere all’imperialismo sovietico hanno progredito».

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