La depressione Mia moglie uccisa dello stesso maledetto male oscuro

Paola era bella, era dolce, era infinitamente buona. Paola era tutto un universo - il mio, il suo - fatto di cose belle, dolci e infinitamente buone. Paola, purtroppo, «era». Nel senso che da quel 3 gennaio 2002 lei non c’è stata più e non potrà più esserci, se non nel pallido conforto della memoria. Anche lei «carcerata», come tante altre creature innocenti, pur senza colpa alcuna, senza macchia di delitto e nemmeno di un benché minimo sospetto, dietro le sbarre di un’atroce malattia - la depressione - che imprigiona e uccide lentamente l’anima.
Finché anche lei non ce l’aveva fatta più. Non ce l’aveva fatta a combattere ancora contro quei cieli che erano sì azzurri, ma che lei ormai vedeva sempre e soltanto nascosti da nuvole nere. Rimasta sola per qualche ora - perché non puoi essere sempre lì, ogni secondo, a vegliare quei barlumi di persone un tempo scintillanti di vita che tu ti ostini comunque ad amare - aveva spento l’interruttore.
Così, scusate lo sfogo, ciò che provo oggi, tra gli echi sollevatisi all’indomani del suicidio in cella della brigatista Diana Blefari Melazzi, è soltanto rabbia. Umanissima rabbia. Quella di dover leggere e ascoltare certi (prevedibili) commenti grondanti ipocrisia, melassa buonista e retorica bolsa di «una stagione da chiudere». Ipocrisia, melassa e retorica che un giornalismo altrettanto prevedibile riassume con pigrizia nei soliti titoli che parlano di «morte annunciata».
Perché tutto è sempre «annunciato», per qualcuno, là verso sinistra. Che sia per cinica polemica o che sia semplicemente quando la coscienza prude e gli argomenti mancano. Perché forse suona più virtuoso ripetere che nessuno debba toccare Caino - e su questo concordo - piuttosto che ricordarsi ogni tanto anche del povero Abele.
«Era depressa e nessuno l’ha protetta, difesa», lamentava per esempio ieri mattina su Rai3 il solito Luigi Manconi, parlando della basista dell’omicidio del professor Marco Biagi. Certo, ma nessuno sarebbe riuscito a proteggere o difendere non dico Paola, ma nessuna delle altre povere creature, dei tanti Abele - ripeto innocenti, incolpevoli, privi anche di ogni minimo sospetto - che ogni giorno e ogni notte se ne vanno in silenzio. Lo fanno per estrema e disperata scelta, oppressi dallo sfinimento, da quei connettori neurali che si sfilacciano, da quelle endorfine che consumano ma che il loro organismo non sa più come ricostituire. Se ne vanno nella solitudine più incolmabile, nell’anonimato totale, nel dolore lancinante di chi resta. Senza che però nessuno, nessun Manconi di turno, si scomodi una volta a ricordarsi di loro, a parlare di loro - nei salotti tv o sui giornali - come di vittime «annunciate».
Nessuno, peraltro, aveva protetto o difeso nemmeno il professor Biagi, seguito, pedinato per settimane (e iniziato così di fatto ad uccidere) nel suo pendolarismo in treno e bicicletta tra la casa bolognese e l’università di Modena dalla Blefari. Che dopo averne annotato tempi e abitudini lo aveva così «consegnato» nelle mani assassine dei suoi compagni e complici.

Cosicché quel grilletto, la sera del 19 marzo 2002, fu come se l’avesse premuto anche lei, la brigatista alla quale oggi sarebbe però disumano negare quella pietas che è doveroso riservare a ogni anima. A quella di Caino, certo, ma prima ancora a quella di Abele.

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