Derivati, il giallo del documento scomparso

IL PROCESSO La truffa da 100 milioni a Palazzo Marino. L’ex sindaco Albertini: «Sparito l’atto sulla convenienza». La replica del pm: «Quella carta non esiste». La Moratti attacca le banche

Derivati, il giallo del documento scomparso

Come sia potuto accadere che il Comune di Milano, sommerso da montagne di debiti che con i loro interessi strozzavano il bilancio, per alleviare la sua situazione si sia messo nelle grinfie delle banche nella fase più spensierata della finanza creativa, peggiorando ulteriormente la propria posizione, è un mistero che forse è destinato a restare tale. Perché ieri nell’aula di tribunale dove si celebra il processo ai diciassette imputati di truffa per quel pasticcio - passato alle cronache come «affare dei derivati» - arriva sul banco dei testimoni uno che qualcosa dovrebbe saperne: Gabriele Albertini, sindaco di Milano dal 1997 al 2006. E quindi primo cittadino quando, nel giugno 2005, venne varata l’operazione.
Peccato che Albertini non sciolga il mistero. È comunque una testimonianza interessante, perché Albertini denuncia un nuovo reato «su cui - protesta - la Procura non ha indagato». Ovvero la sparizione dagli uffici comunali dei documenti che valutavano nel dettaglio la convenienza dell’affare. Secondo la Procura, nella persona del pm Alfredo Robledo, in realtà, quei documenti non sono mai esistiti: il Comune si imbarcò nell’operazione senza neanche calcolare quanto le banche ci avrebbero guadagnato. Secondo Albertini, invece, «il documento sicuramente esisteva, e se negli uffici del Comune non si trova più vuol dire che qualcuno lo ha fatto sparire». Perbacco. E chi sarà stato? «Io non ne ho idea, dovrebbe essere la Procura a scoprirlo».
Albertini, ad ogni buon conto, sostiene di non averlo mai visto. Possibile che un’operazione da un miliardo di euro parta senza che il sindaco ne conosca i dettagli più minuti? È qui che ieri la pista del processo arriva letteralmente a un punto morto. Perché Albertini spiega che a gestire tutto era l’assessore al bilancio Mario Talamona, che essendo scomparso nell’aprile 2006 non ha più modo di offrire la sua versione. Alla memoria di Talamona, sia Albertini che l’avvocato che lo interroga rendono un commosso tributo, ricordandone le doti umane, etiche, professionali, eccetera. Ma ciò non impedisce che all’assessore scomparso venga - per così dire - lasciato il cerino in mano. «Poiché se ne occupava Talamona ero assolutamente certo che tutto sarebbe stato fatto nel più rigoroso rispetto delle regole».
La stessa fiducia, d’altronde, Albertini spiega di averla nutrita in tutto il folto gruppo di alti funzionari comunali che si occuparono di negoziare con le banche il rifinanziamento del debito, alcuni dei quali siedono oggi sul banco degli imputati. Ma proprio in virtù di quella fiducia incondizionata, l’allora primo cittadino non si occupò dei dettagli dell’accordo. Che poi le banche ci abbiano guadagnato «fa parte della loro ragione sociale», dice Albertini. Se poi l’entità di questo guadagno sia risultata del tutto spropositata, il sindaco dice di non saperne assolutamente nulla: «D’altronde quando vado in banca ad occuparmi del mio misero conto corrente non so quanto la banca ci guadagni».
Insieme al compianto Talamona, è ad Angela Casiraghi, direttore di settore, oggi imputata, che l’ex sindaco attribuisce un ruolo diretto: «Era molto competente, molto al corrente, nelle riunioni era spessissimo lei ad esporre il caso». E sempre la Casiraghi, dice l’ex sindaco, era la vera ideatrice dei documenti conclusivi portati da Talamona alla Giunta. «Io mi sono occupato della decisione, non della gestione», dice più volte Albertini.

Che l’operazione fosse conveniente per il Comune, lo dice l’unico documento che l’ex sindaco dice di avere visto, una sorta di «autocertificazione» delle stesse quattro banche (Deutsche Bank, Jp Morgan, Depfa Bank e Ubs) che si arricchirono con l’affare. Oppure quel misterioso documento che qualcuno in Comune dovrebbe avere scritto, ma di cui ora non c’è più traccia.

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