Il deserto di Platonov dove crollarono le cattedrali (di illusioni) del comunismo

Fu bollato come "feccia". Lui reagì, prese il telefono e chiamò (due volte) il dittatore

Andreij Platonov
Andreij Platonov
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Il 1929, l'anno in cui Andrej Platonov cerca di pubblicare il suo primo racconto, è stato appena avviato il primo piano quinquennale. Ovviamente, il programma di Stalin non prevede opere come Makar il dubbioso, dove il protagonista osa contestare l'utilità dello Stato comunista per il proletariato... L'esordio, anzi il non-esordio, poiché il racconto è immediatamente bocciato e criticato, preannuncia il destino di Platonov: considerato uno dei grandi autori della letteratura russa, da quando il mondo può leggerlo (in pratica dopo la morte, per tubercolosi, nel 1951), è una mina vagante per la letteratura «bolscevizzata» degli anni Trenta dell'Unione sovietica.

Platonov è nato (a Voronez, nel 1899) col pedigree giusto, perché il padre è un operaio delle ferrovie; ma la sua anima non è adatta a piegarsi alla dittatura. Nel 1920 prende la tessera del partito e un anno dopo la restituisce. È ingegnere: di giorno si occupa di bonificare le terre russe; di notte scrive. Farsi pubblicare, però, è un altro discorso. Quando accade, nel 1931, con A buon pro, una specie di resoconto della vita nei kolchoz, il racconto e la rivista finiscono sul tavolo di Stalin, che si irrita fin dal sottotitolo, «Cronaca di contadini poveri», per poi perdere totalmente le staffe e annotare a margine: «Stronzo», «Cronaca di kulak», «Questo non è russo, è una lingua astrusa», «Mascalzone!», «Buffone», «Spirito di patata!», «Farabutto». I vertici della rivista, convocati al Cremlino in piena notte, pubblicano immediatamente un articolo per «smascherare il significato antisovietico del racconto e il volto del suo autore». Da quel momento, pubblicare per Platonov diventa un calvario, e a poco gli vale il sostegno di Gor'kij: ormai è bollato come autore sospetto.

Eppure, Platonov compie un gesto incredibile: scrive al dittatore, per ben due volte. La prima, subito dopo il fattaccio, per ammettere che la sua opera «è davvero nociva», e promettere di essere «utile alla rivoluzione». La seconda, un anno e mezzo dopo, alla fine del 1932: «Nessuno oserà mai pubblicare nulla di ciò che ho scritto ora, perché c'è la convinzione che lei abbia un atteggiamento negativo nei miei confronti. Sono l'unico a non pensarla così»... Stalin non gli risponde, ma Platonov resta in vita. In povertà e ai margini (lavora come portinaio all'Istituto di letteratura Gor'kij), ma in vita. Il regime però gli porta via il figlio Platon: a quindici anni, nel 1938, il ragazzo viene arrestato e spedito in un gulag a Noril'sk, oltre il Circolo Polare Artico. Quando dopo cinque anni viene scagionato, è malato e indebolito: torna a casa e muore. Come trasforma tutto questo in letteratura Platonov? Con il racconto La mucca, che ora si può leggere nella bellissima raccolta Tra animali e piante (Einaudi, pagg. 452, euro 23, a cura di Ornella Discacciati) e che come gli altri è censurato, poiché tanta pietà nei confronti del dolore di un animale che ha perso il suo vitellino non è consona all'ottimismo dell'uomo della rivoluzione. La pietas di Platonov nulla ha da spartire con l'ideale dell'homo sovieticus, felice, sano ed eroico; così la sua empatia verso la povera gente, la malinconia del suo sguardo sulla popolazione per la quale nulla cambia, il pessimismo... In racconti come Dzan (cioè «anima») e Takyr, Platonov racconta come le «missioni» per trasformare e migliorare il Paese falliscano miseramente, dissolte nel nulla come granelli di sabbia nella steppa. Si spinge negli immensi deserti ai confini dell'impero sovietico, fra i popoli nomadi: genti ribelli a ogni addomesticamento, persone che si accontentano della propria sofferenza, indifferenti a qualsiasi rivoluzione. Gli dzan del racconto omonimo, per esempio, sono un miscuglio di stirpi remote (karakalpaki, beluci, persiani, turkmeni...

), dormono in buche scavate nella terra, mangiano erbe raccolte, vivono di disperazione. Povere anime, che Platonov comprende e avvicina in modo così umano, troppo umano. E proprio la sua umanità è la colpa inestirpabile, quel peccato radicale che il regime non può perdonargli.

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