La parola «destra» non ha mai avuto fortuna nel linguaggio politico italiano e ancora oggi è impronunciabile. Anche un moderato come Ernesto Galli della Loggia, quando dice «destra», lascia trasparire una smorfia di disprezzo. Per trovare un uso positivo del termine occorre risalire alla Destra storica e ai primi 16 anni dell'unità d'Italia, a Bettino Ricasoli e a Quintino Sella. Poi la parola sparisce e compare vittoriosa quella di «sinistra».
È alla sinistra che appartiene il maggior politico liberale del Regno prima del '14, Giovanni Giolitti. Neanche il fascismo usò il termine «destra». Non penso, come Mario Cervi, che Mussolini sia stato solamente un grande giornalista: fu l'espressione di una revisione del marxismo simile a quella compiuta da Lenin. Ambedue compresero che la rivoluzione anti-borghese sarebbe stata fatta non sulle spalle degli operai, ma su quelle dei contadini e dei soldati. Capirono che la guerra di trincea avrebbe creato un'esperienza del tutto nuova ed avrebbe messo fine alla cultura borghese come incontestabile chiave di riferimento. La guerra stessa fu interpretata da entrambi come un conflitto tra la società capitalista e il proletariato, risolta dalla borghesia con il conflitto delle nazioni.
Non a caso il fascismo si pensò come rivoluzione, analogamente al comunismo russo, ma ritenne che essa potesse non distruggere, ma egemonizzare borghesia e proletariato. Per la sua stessa natura rivoluzionaria il fascismo voleva superare la distinzione tra destra e sinistra.
Stenio Solinas ha ragione quando nota che la censura culturale sul fascismo, contraddetta dall'interesse oggi assai diffuso per quel periodo della storia italiana, ha amputato un'espressione significativa della vicenda politica del paese. È l'esperienza della Rsi ad aver dato forma al post-fascismo italiano negli anni della Repubblica e della democrazia. Allora nasce in Italia una cultura che si chiama di «destra», ma che è assai diversa dal fascismo mussoliniano. Esso era stato molto differente dal nazismo, tanto che la scelta dell'alleanza con Hitler era avvenuta dopo la conquista dell'Etiopia e le sanzioni da parte della Società delle Nazioni.
L'impero che rinasceva sui «colli fatali di Roma» era analogo al modello coloniale franco-inglese. Non è quindi impensabile l'ipotesi di un'Italia fascista ma anti-nazista. La cultura di destra che nacque dopo il fascismo ebbe come suo riferimento ideale il declino dell'Occidente, teorizzato da Oswald Spengler, ed elaborò un concetto di «tradizione» diverso sia da quello cristiano che da quello del fascismo mussoliniano. Le figure dominanti di questa cultura furono Julius Evola e René Guénon. Fu una cultura minoritaria e discriminata, ma capace di costruire un’identità.
Il Sessantotto fu lo sdoganamento di questa cultura. Heidegger e Nietzsche divennero i nuovi maestri e l'idea della sinistra come rivoluzione sociale fondata sul sistema economico capitalista cessò di funzionare perché considerata favorevole al capitalismo stesso e vista come l'egemonia della struttura economica su quella spirituale che il Sessantotto impersonava. Da allora venne messa in discussione la cultura di sinistra come idea della storia identificata col progresso.
La cultura di destra ebbe per capofila l'editore Adelphi e Roberto Calasso. A questa destra appartengono uomini che solo apparentemente sono di sinistra, come Massimo Cacciari, non a caso, oggi, filo-leghista. E anche le posizioni contro la tecnica, come quelle di Emanuele Severino, si riallacciano al medesimo filone.
Ciò non ha però comportato conseguenze politiche dirette: il rigetto della realtà costituita non poteva diventare prassi politica. Capitalismo e democrazia hanno vinto la rivoluzione e hanno imbrigliato la tecnica. Ogni pensiero anti-capitalista è risultato alieno dal reale e non è divenuto forma politica. Forza Italia non ha cultura politica e nemmeno Alleanza Nazionale. Eppure esse potrebbero averla a partire da se stesse, cioè dalla politica che hanno costruito e dal consenso che hanno ricevuto. La cultura di Silvio Berlusconi è una cultura implicita. Un'analisi culturale dovrebbe avere come problema il perché una linea opposta alla sinistra, pur non definendosi «destra», abbia dato per la prima volta dopo Quintino Sella una figura di «destra» alla politica italiana.
Comprendo perché Mario Cervi abbia consigliato Carducci, Verga, De Amicis e Pirandello come maestri del pensiero: essi hanno raggiunto una loro forma culturale all'interno della nazione italiana come il Risorgimento l'aveva costituita. Ciò spiega le ragioni per cui il movimento berlusconiano abbia assunto, come sua definizione, il nome di Forza Italia. Né la Democrazia Cristiana né il Partito Comunista hanno mai dato forma politica alla nazione Italia come valore. L'una e l'altro si dipartivano dal Risorgimento come riferimento ideale della nazione e cercavano nella religione o nella rivoluzione il fondamento universale della loro prassi politica. Non a caso il punto di riferimento originario di Berlusconi era stato il riformismo di Bettino Craxi, che aveva fatto della nazione Italia, identificata nel suo eroe Giuseppe Garibaldi, il fondamento del passaggio del socialismo italiano dal massimalismo alla socialdemocrazia.
La prima Repubblica finì abbandonando il paese diviso tra Mani Pulite e Lega Lombarda. Berlusconi, nel 1994, unì nord e sud con due distinte alleanze, regionali ma compatibili. Alla sinistra non giova l'aver fatto della sua storia la lettura della storia d'Italia. Assistiamo oggi alla lenta decomposizione delle forze dominanti nella storia dell'Italia repubblicana. Ciò che nasce si può chiamare «destra» contrapposto alla «sinistra». E sarebbe forse giusto interpretare l'attuale alleanza di governo come «destra». Ma finora questa parola è stata troppo esecrata per essere accettata.
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