Il dialetto a scuola? La Sicilia lo insegna già

L’insegnamento del dialetto nelle scuole? In Sicilia c’è già da anni, ed è targato sinistra. Sì, perché la legge regionale su «Provvedimenti intesi a favorire lo studio del dialetto siciliano e delle lingue delle minoranze etniche nelle scuole dell’Isola» risale alla Prima Repubblica, anno di grazia 1981, governo guidato non da un leghista ante litteram, ma dal democristiano doc Mario D’Acquisto. E nulla a che vedere col Carroccio ha neppure l’assessore che nel 2000 ha rivitalizzato quella norma, tuttora in vigore: Salvatore Morinello (all’epoca nei Comunisti italiani), insegnante, assessore alla Pubblica istruzione del primo governo di sinistra della storia dell’autonomia siciliana, quello guidato dal diessino Angelo Capodicasa.
Arriva dunque proprio dal Sud, anti-Padania per antonomasia, un modello che ricalca nel dettaglio quello che attualmente è solo a livello di proposta da parte della Lega. Con una differenza: l’obbligo dell’insegnamento delle lingue locali. Studiare il dialetto, nelle scuole siciliane, è facoltativo. Sono gli istituti che possono presentare dei progetti per insegnare ai ragazzi, nell’ambito delle attività integrative, lingua, storia, letteratura e tradizioni siciliane. La Regione vaglia le richieste e quindi le finanzia, sino a un massimo di 5mila euro. Media dello stanziamento complessivo della Regione per le scuole che ne fanno richiesta - un centinaio ogni anno sino al 2004 - 500mila euro. La circolare del 2000 dell’allora assessore del Pdci è dettagliata. Prevede persino «l’utilizzazione di personale insegnante dal cui curriculum di studio e professionale (frequenza a corsi di aggiornamento, pubblicazioni eccetera) risulti una specifica e documentata competenza nel settore», quello dello studio del dialetto siciliano e dell’approfondimento delle tradizioni.
Un modello consolidato, quello siciliano. E non è un caso che proprio dalla Sicilia arrivi un coro di «sì», ferma restando l’unità nazionale e la lingua italiana, alla proposta di insegnamento del dialetto a scuola. «È giusto che nelle scuole siciliane si insegni il nostro dialetto – dice l’assessore regionale alla Pubblica istruzione Lino Leanza (Mpa) – il problema è sensibilizzare gli insegnanti. Negli ultimi anni le richieste degli istituti per progetti relativi al dialetto sono diminuiti. Con la festa dell’Autonomia speriamo di riuscire a fare di più».
Già, non si limita al solo insegnamento del dialetto la realizzazione pratica, in Sicilia, delle proposte del Carroccio. Oltre alla bandiera – la Trinacria su sfondo giallo-rosso - la Regione siciliana ha il suo inno, e persino appunto la sua festa, che si celebra il 15 maggio. Una regione leghista ante litteram, pur se diametralmente opposta alla Padania? «Lo dico sempre quando si parla del Partito del Sud – sottolinea il governatore di Sicilia Raffaele Lombardo – l’impegno più importante per il recupero della nostra storia e dell’identità è quello culturale. I nostri insegnanti, spesso anche quelli siciliani, ritengono il nostro dialetto un insulto all’unità nazionale. E dimenticano che la lingua siciliana, perché di lingua si tratta, era quella di Cielo D’Alcamo, che poi è stato superato da Dante. È inevitabile che la Sicilia senta la necessità di studiare il suo dialetto, di recuperare le radici e la propria storia e che sia prima in questo campo. Non c’è nessuno scandalo nel recupero dell’identità come valore, ferma restando l’unità nazionale. Anzi, va incentivato, perché è da lì che si parte per un recupero globale di storia e cultura».
Un vizio antico, quello del dialetto a scuola per i siciliani. «Sino al 1958 – ricorda il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale Guido Di Stefano – i programmi del concorso magistrale, del concorso cioè con cui si diventava maestri elementari, prevedevano espressamente, nell’isola, nozioni di Storia della Sicilia e di dialetto.

Attualmente in Sicilia è una scelta, ma lo studio obbligatorio del dialetto è utile, per il recupero della storia e di certe tradizioni che rischiano di sparire. Già oggi tra i non più giovani, detti e storie siciliani cominciano a essere poco conosciuti. E invece è un patrimonio da preservare, che non va perso».

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