Dialogo non vuole dire accettare la lapidazione

Caro Granzotto, non metto in discussione il suo diritto-diletto di cantare fuori dal coro. Su una cosa però non concordo con lei. Mi riferisco al suo marcato disprezzo per il dialogo. La parole greche dal quale è formato sono «dià», che significa «attraverso», e «logos», che come tutti sanno può essere reso con «discorso». Perciò il dialogo è contatto con la parola, e non capisco perché lei ne rifiuti la portanza etica e religiosa. So - lo ha ammesso lei stesso - che non ha conoscenza profonda delle tematiche cristiane, ma creda: solo con il dialogo potremo sanare incomprensioni e divisioni.


E invece, voglio stupirla, caro Cardinali: sul «dialogo» sono abbastanza preparato. Non dico che ne ho fatto degli studi, ma mi sono informato, ho letto. Venendo a sapere, per dirne una, che il concetto di «dialogo» inteso come lo si sta intendendo è sempre stato ignoto alla Chiesa. Vi irruppe col Concilio Vaticano II nei cui resoconti compare ben ventotto volte sotto le forme di «dialogo col mondo» - divenuta la più popolare - e di «muto dialogo», sempre fra la Chiesa e il mondo. Fu in quel contesto che il «dialogo» venne sfrattato dai suoi ambiti naturali, la retorica e la logica. Finendo per diventare una categoria della realtà. Lei ricorderà che lo scorso anno, presi dal fervore pacifista i fraticelli di Assisi elevarono a campione e precursore del «dialogo» San Francesco. Naturalmente intendendolo, il dialogo, come lo vollero intendere i Padri conciliari e come si seguita a intenderlo. Ma Francesco visse prima del 1962 e dunque dava al dialogo lo stesso valore che allora gli riconosceva la Chiesa. Riferisce frate Illuminato, presente al colloquio, che quando il sultano Malil-Al-Kamil se lo trovò di fronte, così apostrofò Francesco: «Com’è che voi cristiani predicate la pace e la fratellanza e poi invadete le nostre terre?». E il santo, per tutta risposta: «I cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla religione quanti uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi». Il «dialogo» ovviamente non ebbe modo di proseguire. Quello era, fino all’anno del Signore 1962, il «dialogo», caro Cardinali: strumento dialettico di confutazione. Finché si magnificano le virtù del «confronto», per me va tutto bene. «Confrontarsi» è solo un modo diverso per dire «parlarsi» e quindi comunicare. Il farlo non è (quasi) mai tempo perso. Parlarsi, pardon, confrontarsi, aiuta a conoscersi, a saggiare la validità delle proprie opinioni, a capire. Mi andrebbe bene anche il «dialogo» se restasse sinonimo di colloquio e, come espediente dialettico, di confutazione. Mi andrebbe bene che se dopo aver snaturato il principio di tolleranza assimilandolo all’intesa, che è tutt’altra cosa, non si fosse assegnato al «dialogo» il solo scopo di conseguire la conciliazione e dunque il compromesso, che è il luogo dove le verità si stemperano fino a cancellarsi. Se, dialogando con un musulmano, sostengo che lapidare le donne è un atto criminale e il musulmano mi risponde: «È la nostra legge, dettataci dal Profeta. Non puoi chiedermi di infrangerla», il dialogo finisce lì.

Affinché continui e realizzi la sua missione, i casi sono due: o capitolo io, riconoscendo come giusto, come «vero», che sia moralmente lecito lapidare le adultere, o capitola l’interlocutore. Se questi è disposto a farlo (io no di certo), benissimo, evviva il dialogo. Che però, visto i risultati, è dialogo come l’intendeva San Francesco, non come lo interpretano oggi gli apologeti del relativismo.

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