Dialogo socratico sul maiale

Dialogo socratico sul maiale

Laura Novelli

Il canto angelico e melodioso della giovane Madonna che apre lo spettacolo nulla farebbe presagire del grottesco furore che a breve invaderà la scena, se non fosse per quegli indizi muti ma incontrovertibili che ci vengono dal luogo della rappresentazione: un sagrato/piazza allestito a festa di paese con lucette appese, scalinate, pedane, oggetti e simboli in bilico tra devozione e folklore. Su un duplice registro - popolare e colto, tradizionale e moderno - si muove, d’altronde, da tempo la ricerca stilistica di Vincenzo Pirrotta, attore e regista siciliano già apprezzato nelle scorse stagioni per i suoi allestimenti originali e sanguigni (basti citare titoli quali Eumenidi o 'U Ciclopu) e impegnato ora al teatro India in un’operazione che proprio nel sangue, nel corpo, nell’animalità trova alcuni dei suoi temi portanti. Si tratta, infatti, di un libero adattamento de La Sagra del Signore della nave, opera piuttosto tarda di Luigi Pirandello, quasi mai rappresentata (debuttò nel ’25 al Teatro delle Arti di Roma con la compagnia dove recitavano, tra gli altri, Marta Abba e Ruggero Ruggeri), che qui si piega al vigore espressionista di Pirrotta e ad una fisicità profusa ovunque. Nella lingua (un siciliano stretto mosso da vivaci coloriture), nelle incisive musiche di Ramberto Ciammarughi, nell’intarsio corale degli interpreti (tredici gli attori in scena, tra cui lo stesso regista, chiamati a ricoprire i numerosi ruoli previsti), nel crescente clima «orgiastico» che accompagna i fatti.
Fatti incentrati essenzialmente sul rito della scanna del maiale e su una sagra paesana (ispirata a quella che si svolge davanti alla chiesa di San Nicola, vicino Agrigento) che ne accompagna i diversi momenti. È proprio durante questa festa collettiva all’aperto, prodiga di cibo, sesso e buon vino, che si svolge il dialogo tra il signor Lavaccara (Pirrotta) e il Giovane Pedagogo: il primo, padrone del porco appena sacrificato, difende la nobiltà della bestia e la sua superiorità rispetto all’uomo; il secondo, viceversa, ribatte che anche l’umanità più imbestialita è comunque migliore del maiale. L’impianto da carnevalesca brama di piaceri cui partecipa l’intero paese fa dunque da sfondo ad un fine ragionamento filosofico che adombra i lineamenti del dialogo socratico e che (stridente anche a livello visivo poiché alla notevole rotondità del Lavaccara e del suo seguito si contrappone la spigolosa magrezza del Pedagogo) arriva a sancire, pur in un clima di baldanzosa esultanza, la tragica fragilità dell’uomo, il suo ambiguo statuto di creatura costantemente divisa tra apollineo e dionisiaco.
Discorso che la regia di Pirrotta esalta al massimo, trasformando la scanna del maiale in una caricaturale scorribanda circense dove non poche sono le suggestioni che rimandano alla favola di Ubu Roi, al cabaret espressionista dei primi del Novecento, ai quadri di Botero o di Groz, agli eccessi strampalati della Commedia dell’Arte (quella mediterranea e settecentesca, con i Pulcinella e i Pierrot dai lunghi cappelli cilindrici).
E il bello è che tutto trova senso nella religiosa mestizia del finale: al centro della scena viene portata in processione la statua di un Cristo morto che possiede le fattezze insanguinate di una bestia scannata e la sua immagine, forte e insieme pietosa, sembra conciliare improvvisamente gli opposti.

Sembra ricomporre le pagine scompaginate di una lezione umana rocambolesca e vitalissima (un plauso particolare va alla scenografa e costumista Giuseppina Maurizi) che nell’epilogo evoca lo struggente pathos di quella Maria bambina dalla voce di angelo con cui aveva preso l’avvio.
Repliche fino al 26 marzo. Informazioni: 06/684000345.

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