Leggi il settimanale

All'università servono più spazi di libertà

Anche se in Italia non è facile ragionare pacatamente, sarebbe importante iniziare a riflettere su due formule ricorrenti in lingua inglese quando si distingue la cosiddetta "teaching university" dalla "research university"

All'università servono più spazi di libertà
00:00 00:00

Le riflessioni di Alessandro Gnocchi sul sapere in crisi, pubblicate sul Giornale la scorsa domenica, all'indomani delle dimissioni di un insigne quanto pacato italianista dell'Università di Genova, Enrico Testa, possono essere il punto di partenza per alcune considerazioni sullo stato dell'università italiana. Non soltanto perché l'articolo evidenzia uno dei mali peggiori degli atenei odierni, la sua burocratizzazione, ma anche perché porta alla luce questioni spesso ignorate o sottovalutate.

In effetti, l'avvento del "buroprofessore" si colloca in un quadro più generale e il sottoscritto, essendo stato presidente dell'Anvur (Agenzia di Valutazione dell'Università), è sicuramente chiamato se non a un ripensamento quanto meno a sviluppare qualche amara considerazione sulla degenerazione del sistema di valutazione su cui poggia l'intero sistema universitario.

Merita pure attenzione anche quel passaggio dell'articolo in cui viene detto, senza mezzi termini, che nell'università italiana "l'insegnamento che dovrebbe essere il cuore dell'istituzione scivola in fondo alla lista delle priorità". Non credo che sul tema tutto sia evidente e penso, al contrario, che alcune riflessioni possano essere opportune.

Anche se in Italia non è facile ragionare pacatamente, sarebbe importante iniziare a riflettere su due formule ricorrenti in lingua inglese quando si distingue la cosiddetta "teaching university" dalla "research university". Anche senza altre precisazioni, questa terminologia dice già molto, perché segnala come altrove non sia un tabù concepire un luogo universitario primariamente orientato alla ricerca e uno, invece, che si focalizza essenzialmente sull'insegnamento.

Naturalmente in Italia l'obbligo di coniugare insegnamento e ricerca è imposto dall'ordinamento stesso: sul tema, lo sappiamo, le norme sono assai chiare. Questo però non dovrebbe esimerci dal domandarci se tale paradigma sia sempre valido e se non sia possibile iniziare a ragionare diversamente. Alcuni contestano, in particolare, la tesi secondo cui sarebbe impossibile realizzare una buona didattica senza aver sviluppato una buona ricerca. L'opposto è forse meglio accettato (basti pensare al Cnr), ma il fatto che da tempo si accetti acriticamente questa sovrapposizione tra lo studio e la docenza non necessariamente la giustifica.

Se si guarda ad altri modelli, anche fuori dall'Europa, si scopre in particolare che le soluzioni possono essere assai diverse. In particolare, negli Stati Uniti esiste una netta distinzione tra il college, dove ci si occupa solo della formazione culturale dei giovani, dalle università. È una ripartizione che funziona molto bene, ma è indubbio che immaginare anche da noi qualcosa di simile obbligherebbe ad aprirci ad una pluralità di modelli e soluzioni: e tutto ciò contrasta con lo spirito statocentrico e unitario della nostra storia accademica più recente. Eppure, se si riuscisse ad avere un sistema universitario maggiormente plurale e versatile si sarebbe meglio in grado di interagire con il mondo del lavoro.

A questo bisogna aggiungere che a livello internazionale è in atto un generale ripensamento sulla necessità assoluta che una istituzione di livello terziario debba sempre e necessariamente integrare la ricerca e la didattica. Al riguardo le considerazioni assai critiche di Gnocchi e Testa sul ruolo pervasivo della valutazione (viziata, tra l'altro, dall'egemonia culturale woke) vanno proprio in questa direzione, dato che come hanno affermato Alex McKenzie, Lynden Griggs, Rick Snell e Gary D. Meyers "la moderna compliance dell'università contemporanea, guidata da indicatori misurabili, non consente più a questo nesso di esistere". In Australia alcuni studiosi di diritto sono arrivati a sostenere che il nesso tra insegnamento e ricerca è ormai un vero e proprio "mito".

In altre parole, bisogna mettere in discussione l'obbligo che vuole che in ogni università si faccia al tempo stesso formazione e ricerca.

Più in generale il maggiore problema dell'università italiana è proprio la rigidità del modello, che ostacola l'innovazione negli atenei, mentre avremmo bisogno di un'offerta più articolata e plurale, che è poi quello che il mondo del lavoro chiede di continuo alla formazione superiore.

* Già presidente di Anvur

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica