Dieci anni di Dagospia: il gossip fa il lifting all'Italia

Spettegolando a destra e a sinistra, ha cambiato usi, costumi e linguaggi dell'Italia post moderna. Fra maschere grottesche e scandali, D'Agostino domani andrà in cattedra alla Sapienza

Dieci anni di Dagospia: il gossip fa il lifting all'Italia

Dagospia, uno tra i più famosi e cliccati siti web in Italia, compie dieci anni e domani l’Università La Sapienza di Roma lo consacra con una celebrazione davvero particolare dal titolo «2000-2010. Un decennale in cattedra».

Come si sente Dago, cioè Roberto D’Agostino, a diventare materia accademica? «Non mi fa né caldo né freddo, a parte la vanità dell’uomo, ma visto quello che esce normalmente dalle università non mi stupisco, io che sono abusivo in tutto. Peraltro Internet ha spazzato via la vecchia scuola, nessuno di quelli che hanno cambiato il mondo è laureato o possiede un pezzo di carta. Peccato solo che non ci sia più Beniamino Placido, di cui seguivo i corsi senza essere iscritto».

Il celebre logo a forma di bomba compare in rete il 22 maggio 2000, dopo che al suo inventore tolgono una rubrica di gossip troppo piccanti su L’Espresso. Leggende romane vogliono sia stata Barbara Palombelli a suggerirgli di inventare uno spazio libero, senza censure, dove mettere le notizie rubate nei salotti, nei palazzi della politica, qualche volta sotto le lenzuola. Da allora Dagospia è diventato l’organo ufficiale di indiscrezioni, rivelazioni e pettegolezzi. Molti si arrabbiano se vengono trattati male, ma più che altro rosica chi non ci finisce dentro. «In realtà si incazzano tutti, perché il tasso di permalosità sorpassa il muro del suono. Almeno non vengo più invitato alle cene e alle feste, cose che scassano davvero i coglioni».
Dopo l’esordio come dj a Bandiera gialla, programma radiofonico di culto che dal 1965 promuove il beat italiano accanto al soul d’importazione, D’Agostino lega la prima parte della sua carriera a Renzo Arbore, inesausto talent scout di irregolari e pazzarielli, all’inizio degli anni ’80, quando si compie la vera rivoluzione televisiva. In Quelli della notte, esibendo completi giallo canarino, occhiali e accessori multicolori, si inventa esperto di look e fustigatore dei costumi, meglio se altrui. Con il suo motto «edonismo reaganiano» definisce lo stile di un’epoca che finalmente si libera dalla cupezza degli anni ’70 ed è corresponsabile della popolarità del romanzo di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere che cita a ogni pié sospinto dal piccolo schermo indicandolo come il manifesto della nuova era postmoderna. Nei suoi saggi illustrati - da Il peggio di Novella 2000 a Come vivere - e bene - senza i comunisti, da Libidine. Guida sintetica a una vera degenerazione fisica e morale a Sbucciando piselli, scritto insieme a Federico Zeri - ritroviamo un’ampia antologia dello stupidario contemporaneo, da cui Dago non prende le distanze, anzi ci si cala dentro con passione e senso di appartenenza. Se Balzac fosse stato attivo alla fine del XX secolo, avrebbe raccontato Splendori e miserie delle cortigiane con lo stesso stile del giornalista e showman romano.
Ma il mondo di Internet è diverso ed è solo il pubblico a decidere del successo, non ci sono reti di protezione né raccomandazioni di sorta. Dagospia cambia completamente il modo di parlare di politica perché alla gente non interessano più le diatribe ideologiche. «Soprattutto - puntualizza Roberto - Dagospia introduce i personaggi della finanza e dell’economia e i loro intrecci vertiginosi con il potere. L’importante, comunque, non sono le cose che scrivi, ma come le scrivi, la capacità di andare incontro a ciò che vuole la gente e al poco tempo disponibile. Il messaggio è condensato nei titoli sparati, succosi e mai banali o arrotondati come nella carta stampata».

Il pubblico di cui parla Dago è ghiotto di informazioni «riservate» su abitudini e vizietti sessuali, inciuci tra palazzo e banche; la cultura non è più appannaggio di un’élite, ma occasione per farsi vedere in società, mangiare a scrocco, essere paparazzati accanto al vip di turno. E, soprattutto, non ci sono regole, tutti giocano contro tutti, viene smascherata l’ipocrisia del politicamente corretto, in una corsa frenetica ad arrivare per primi sulla notizia, grazie a collaboratori sguinzagliati sempre nei posti giusti. La nuova estetica è dunque quella dello scoop, alcuni davvero storici come la liberazione degli ostaggi italiani in Irak, il valzer dei direttori dei quotidiani, l’addio di Bonolis a Mediaset e le nomine Rai.

Manipolatore del linguaggio, Dago ha inventato neologismi entrati nel vocabolario degli anni 2000, da «attovagliamento» a «cafonal», sinonimo di esibizionismo pacchiano. I suoi nomignoli e soprannomi non hanno risparmiato nessuno: Prodi, la mortadella dal volto umano, l’Arconte di Arcore, Marpionne, Pierfurby Casini, WalterEgo Veltroni, Aledanno, Emilio Fedele e i recenti Gian-Mipento Fini e Becchino. Autentico valore aggiunto è dato dalle immagini di Umberto Pizzi, lo scatenato fotoreporter capace di attualizzare lo stile «paparazzo» di Tazio Secchiaroli e dei fotografi della Dolce Vita coniugandolo con lo stile iperkitsch e impietoso dell’inglese Martin Parr, noto per aver immortalato le pessime abitudini alimentari dei turisti dell’era globale. Il duo Dago-Pizzi riesce sempre a cogliere l’effetto indesiderato, la risata a bocca piena, il décolleté cadente, l’effetto cellulite e l’occhio ebbro.

«Umberto Pizzi è il grande artista del realismo panico, maestro dell’attesa, a 73anni sta anche cinque ore ad aspettare che il soggetto si riveli per ciò che è, ovvero mostrare il suo peggio». Visioni terribili dell’apocalisse da salotto, che si avvicinano a quelle dell’arte contemporanea di cui Dago è esperto e attento collezionista.

Ovviamente delle forme più strane e «avanti», che nulla concedono al gusto noioso della borghesia pseudo-illuminata per muoversi in direzione dell’eccesso: ultra barocco, pop surrealismo, digital paint, illustrazione psichedelica, ex voto del terzo millennio e così via. Meraviglie affastellate senza un ordine preciso nella sua casa sul Lungotevere, una delle più belle di Roma, dove il computer è sempre acceso, perché c’è sempre in giro qualcuno da sputtanare.

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