Il dietrofront: niente superpensioni ai manager pubblici

RomaIl dietrofront del governo arriva a ora di pranzo: non ci sarà nessuna modifica al testo del decreto sulle commissioni bancarie. Tradotto, nessun tentativo di ripristinare la norma che tutelava le cosiddette «pensioni d’oro» dei manager pubblici.
Norma che era stata abolita con gran clamore la settimana scorsa, quando il governo era andato in minoranza al Senato su emendamenti presentati da Lega, Idv e Pdl, e votati trasversalmente dalla maggioranza dei senatori. La norma abrogata prevedeva che il tetto di 300mila euro per gli alti funzionari pubblici, introdotto dal decreto «Salva Italia», non si ripercuota sulla definizione della loro pensione, nella parte calcolata con il metodo retributivo.
In realtà, un tentativo di tornare al testo originario ieri è stato fatto, quando nella commissione di Montecitorio, che aveva appena iniziato l’esame del decreto, si è presentato il ministro dei Rapporti con il Parlamento Piero Giarda, accompagnato dai sottosegretari Polillo e De Vicenti. I tre hanno sondato i capigruppo in commissione della maggioranza, sottoponendo loro il problema: se non si ripristina la norma (che riguarda in verità un limitato numero di manager pubblici che hanno già maturato i requisiti per andare in pensione ma sono ancora in funzione, e che hanno subito la decurtazione dello stipendio in base al «Salva Italia») si rischia un’ondata di ricorsi, di sentenze - sicuramente a favore degli alti papaveri, in base al principio del «diritto acquisito» stabilito anche dalla Consulta - e quindi di costi molto più alti per lo Stato. Ma i rappresentanti di Pdl, Pd e Terzo Polo hanno allargato le braccia: niente da fare, in questo clima politico e con Lega e Italia dei valori a soffiare sul fuoco, nessuno se la sentiva di metterci la faccia. La norma, hanno spiegato a Giarda i parlamentari della maggioranza, in questa situazione è «inopportuna», e comunque rischierebbe di venire nuovamente bocciata al Senato. Tanto più che leghisti e dipietristi già alzavano la voce, promettendo battaglia senza quartiere e tuonando contro il «vergognoso tentativo di salvare le pensioni d’oro degli alti manager», e parlando di «governo colto con le mani nella marmellata».
Anche il Pd, che pure al Senato aveva mantenuto gli impegni presi col governo e votato disciplinatamente (con qualche eccezione) contro gli emendamenti soppressivi, in questa occasione ha alzato bandiera bianca. D’altronde i suoi senatori, a cominciare dalla capogruppo Anna Finocchiaro, hanno dovuto subire per giorni una vera e propria gogna mediatica, coperti di contumelie sui social network e messi all’indice dal «popolo viola», con l’accusa di voler blindare gli immondi privilegi degli alti papaveri.

Pochi giorni fa Anna Finocchiaro si è difesa su Facebook, denunciando una «disinformazione dolosa o frutto di incompetenza», e ricordando che il governo voleva solo sanare «un problema tecnico», onde «evitare di pagare risarcimenti e spese dopo ricorsi che i giudici risolverebbero in cinque minuti a sfavore dello Stato». Ma l’argomentazione non ha fatto breccia, e ieri il governo è stato costretto alla retromarcia, annunciando per bocca di Giarda di voler «confermare il testo approvato dal Senato».

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