Difendere il «lei» è causa persa Ma molto onorevole

Egregio dottor Granzotto, leggo molto spesso le sue risposte in materia linguistica, e a questo proposito vorrei sapere che cosa pensa dell’uso comune da parte di enti, call center, società etc del nome dell’interlocutore telefonico - per esempio: signor Gustavo - anziché del cognome. Ho avuto diverse occasioni, in questi ultimi mesi, di parlare al telefono con uno sconosciuto che mi chiamava per nome. Quale può essere il motivo che spinge a questa scelta molto diffusa?
Genova

Malvezzo dilagante, caro Basevi, quello di dare del tu a degli sconosciuti. Fosse poi solo degli enti o dei call center, ma ci si mettono anche i giovani e quel che è peggio i giovanilisti, cioè gli ultraquarantenni che si credono e si dicono (sarà mica un altro diritto umano?) appena entrati nell’età della ragione. Le giovaniliste, poi, meglio lasciar perdere. Fra coloro che una volta si dicevano carampane (sostantivo deonomastico e cioè forgiato sul nome della nobile famiglia Rampani di Venezia, ma questa è un’altra storia) è tutto un dirsi e darsi della «ragazza». Parola che non ha cambiato significato nel corso dei secoli e seguita a indicare l’adolescente o, comunque, la donna di giovane età. Veniamo al dunque: del malvezzo in questione è responsabile, sebbene indirettamente, per il cinquanta per cento l’America. Come sappiamo, nella lingua laggiù parlata singolare e plurale del pronome di seconda persona si scrivono e si pronunciano nella stessa maniera: you. Ciò ha portato falangi di beoti a concludere che Oltreoceano ci si rivolge a tutti, indistintamente, nel modo familiare e cioè col «tu» (senza dunque tener conto che negli States il segnale semantico del nostro «tu», la familiarità, è rappresentato dal chiamarsi col nome di battesimo). A far di un innocuo luogo comune una sciagura pensarono poi i così detti esperti in scienza della comunicazione - in genere giovani scalpitanti tutto customer care, mission, target, occurence, management e relationship - ai quali, nel proposito di darsi una svecchiata, le aziende di servizi spalancarono le porte. Manco a dirlo, quegli «scienziati» imposero che nei rapporti con il cliente o il consumatore si seguisse quello che ritengono essere l’uso americano: tu a tutti. E ciò allo scopo di instaurare il «rapporto diretto», di alimentare la bubbola del sentimento di appartenenza alla community e di far sentire ogni interlocutore un «americano del Kansas City» come il Nando Mericoni di Alberto Sordi.
Il secondo cinquanta per cento, riferito all’uso generalizzato del «tu» diciamo così da strada e da negozio («Senti, sai mica dov’è piazza Cavour?», «In che cosa posso esserti utile?», altra americanata, calco imbecille del «Can I help you?» in luogo dell’autarchico «Desidera?») trae dal promiscuo sessantottino e dall’unitarismo proletario comunista. Nel Pci si era tutti compagni e ci si dava del tu (meno che a Togliatti, il quale pretendeva il lei. E siccome suonava male, suonava socialdemocratico un «Senta, compagno», il Migliore si evitò anche l’appellativo). Dell’impronta collettiva e promiscua del Sessantotto, poi, neanche a dire. Bene, siccome siamo un popolo di reduci che coltivano il reducismo, l’uso di dar indiscriminatamente del tu ha sempre covato sotto la cenere finendo per tornare a divampare con l’affermarsi del giovanilismo di costume e di lifting (fra ragazzi e ragazze ci si da del tu, no?). Che fare, allora? Bé, con questi presupposti non si vedono vie di scampo, caro Basevi, se non quella di resistere-resistere-resistere rispondendo col lei agli inveterati «tuisti».

Meglio sarebbe il «voi» e aveva visto giusto chi sappiamo a volerlo imporre al posto dello spagnolesco e sciatto «lei». Ma siccome come dice quel buontempone di Gianfranco Fini stiamo parlando del Male Assoluto, accontentiamoci di quel che passa il convento.

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