Cronaca locale

«Dinosauri, conchiglie e carte bollate. I miei ricordi ora li metto in vetrina»

Ci entrò nel ’64 e se ne andò (stufo della burocrazia) nel ’96: «La volta che portai a casa un capodoglio...»

Luigi Mascheroni

Ha girato mezzo mondo, seguendo orme di dinosauri in Niger, a caccia di fossili nel deserto del Tenerè, a decifrare le incisioni rupestri a Wadi Rum, in Giordania - «il luogo più bello della terra» - ad acquistare resti di mammiferi della Pampa, in Argentina, e a ordinare terracotte Tang, in Cina. Eppure oggi adora stare rintanato nella sua casa, dietro alla Fiera, che è già un piccolo museo tra libri antichi, trattati scientifici, atlanti, conchiglie, riproduzioni di stegosauro in scala, maschere africane, stampe, microscopi d’epoca, fossili e corna di gazzella.
Giovanni Pinna ha 67 anni, trentadue dei quali passati dentro al Museo di Storia naturale di Milano, prima come conservatore di paleontologia poi come direttore. Una straordinaria avventura umana e scientifica che racconta nella sua autobiografia Animali impagliati e altre memorie (appena pubblicata da Jaca Book) ricchissima di aneddoti, ricordi, riflessioni sulla funzione del museo, incursioni nella storia delle scienze naturali, a suo modo diario di viaggio nelle “periferie” del pianeta, senza trascurare i toni da polemista sulla gestione del patrimonio culturale in Italia. «Lasciai il Museo di Storia naturale, al quale ho dato metà della mia vita, con qualche anno di anticipo sulla fine del mandato, nel ’96, perché cominciavo a non sopportare più le fatiche burocratiche che dovevo affrontare ogni giorno: carte da firmare, documenti da far girare, dieci timbri per la richiesta di acquisto di tre matite... Non c’è niente da fare, è una questione di mentalità, tutta italiana».
Quando se ne andò, una decina d’anni fa, Giovanni Pinna riconsegnò alla città le chiavi di un museo che ormai era tra i sette maggiori di storia naturale d’Europa, un vero gioiello. Quando ci entrò la prima volta, nel febbraio del ’64, giovane paleontologo dal corposo curriculum accademico, il museo di corso Venezia, fondato nel 1838, era invece l’ombra di se stesso. «Non si era ancora del tutto risollevato dai bombardamenti durante la guerra. Si era salvato pochissimo e quel poco era in condizioni disastrose, senza fondi e poco personale. Da anni era pressoché immobile. Con pazienza rimettemmo mano al materiale superstite, riordinammo le collezioni, si iniziò a comprare nuovi espositori, ad aggiornare la biblioteca, e soprattutto ad accrescere l’esposizione, portando al museo nuovi pezzi». Un lavoro immenso, difficile ed entusiasmante. Nel ’69 Pinna diventa vicedirettore e nell’81 direttore: a questo punto inizia a pianificare una profonda riorganizzazione dell’istituto, sfruttando l’esperienza accumulata e le conoscenze acquisite studiando l’organizzazione di molti musei nel mondo. Cambia l’allestimento delle sale basato su criteri ormai superati inserendo molti diorami (le ricostruzioni di ambienti naturali, uno dei mezzi di comunicazione più efficace per il visitatore), riorganizza le collezioni in modo più moderno («Oggi le città chiedono all’architetto di progettare i propri musei, ma è un errore. È chi ci lavora dentro che lo deve pensare, perché conosce le esigenze e i problemi che l’architetto semmai può interpretare»), grazie alle sue relazioni personali inserisce il museo milanese nella comunità scientifica internazionale, aumenta il numero e la qualità delle collezioni riuscendo a “strappare” più fondi all’amministrazione comunale e gestendo al meglio la cassa («Il modo migliore per ottimizzare le risorse è tenere sotto controllo le spese: per me è stata una regola basilare») e soprattutto, apre il più possibile al pubblico con i cicli di conferenze, la didattica e le visite guidate.
In oltre trent’anni di lavoro nel “suo” museo, Giovanni Pinna ha acquistato lo scheletro di un allosauro (a Salt Lake City, nel ’67), ricostruito un triceratopo, catalogato migliaia di conchiglie e insetti, imbalsamato ippopotami, recuperato lo scheletro di un gigantesco capodoglio... «È uno dei ricordi più belli. Era l’88, maggio. Un venerdì ci telefonano da Forte dei Marmi dicendo che era stato trovato sulla spiaggia un capodoglio lungo 12 metri e di 18 tonnellate di peso. Non sapevano come disfarsene, volevano sotterrarlo lì, o ributtarlo in mare e prenderlo a cannonate. Io dico: lo portiamo al museo. E lì è iniziata l’odissea. Parto con due zoologi per la Versilia, riesco a convincere le autorità locali a mettermi a disposizione un autoarticolato e due gru per caricare la carcassa. Lo trasportiamo a Milano di notte mentre già inizia la putrefazione. L’assessore al commercio ci mette a disposizione una zona dismessa del macello pubblico e lì, mentre l’ufficiale sanitario fa finta di niente e i pompieri chiudono tutt’e due gli occhi, prima lo scarnifichiamo, tenendo gli organi interni e mandando all’inceneritore la carne, poi per pulire le ossa dal grasso, le facciamo bollire. Ma come si fa con lo scheletro di un animale così, che solo il cranio misura tre metri e mezzo? Abbiamo acquistato una vecchia autocisterna, l’abbiamo tagliata in due orizzontalmente e ne abbiamo ricavato un’enorme pentola, e poi abbiamo acceso sotto il fuoco... Furono giornate epiche, mi creda. Ma tutto questo dimostrò l’autorevolezza acquisita dal museo, visto che tutte le autorità si fecero in quattro per aiutarci». Oggi, a ripagare quella fatica e quei rischi, lo scheletro del capodoglio accoglie i visitatori al primo piano dell’istituto.
Giovanni Pinna, uno per il quale l’unica passione è il proprio lavoro, da quando ha lasciato il museo - un addio con pochi rimpianti e molto orgoglio - ha continuato a scrivere, studiare e soprattutto a insegnare agli altri come si “fa” un museo: ha pubblicato libri, è stato presidente del comitato italiano dell’International Council of Museums che collabora con l’Unesco nella gestione del patrimonio museale nel mondo ed è stato consulente del museo di Xi’an, in Cina, dove ha lavorato all’esposizione delle tombe reali della dinastia Tang, del Museo nazionale dell’Iran, a Teheran, dove è sprofondato negli abissi del tempo fino al VI millenio avanti l’era volgare, di quello di Damasco, dove ha avuto per le mani le tavolette cuneiformi della città di Ugarit, del museo di Campo Grande, in Brasile, per sistemare la gigantesca collezione di oggetti indios...

Storie lontane di dinosauri, civiltà scomparse e animali impagliati raccontate - con un filo di nostalgia e insolito umorismo - da un “vecchio” professore con il quale si avrebbe voglia di rimanere tutto il giorno a chiacchierare.

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