Dio non gioca con i matematici

L’ultimo atto tracotante dell’impenitente Piergiorgio Odifreddi: liquidare in 4 paginette il problema millenario di tutte le civiltà. Vuole scalare le vette del pensiero, ma non ha la profondità dei grandi filosofi, né l'ironia di un Russell e neppure una penna brillante

Abbiamo la prova matematica, attraverso un matematico, del perché ai ragazzi di oggi non piace la matematica. Il matematico è il professor Piergiorgio Odifreddi che deve la sua esistenza su questa terra a un miracolo di Padre Pio. Infatti, si calcola matematicamente che tutto ciò contro cui il professore si scaglia ha uno sviluppo esponenziale d’interesse sempre più complesso da valutare.

Il professore se l’è presa con Babbo Natale (figura perniciosa da espellere dal consesso umano), con le fiabe (forme di corruzione ideologica), con i giochi di prestigio nei circhi equestri (attentati all’integrità psichica di grandi e piccini). Adesso se l’è presa con quei babbei che credono in Dio, e gli sono bastate quattro paginette scritte in largo - ci riferiamo alla sua introduzione al saggio dello scienziato americano John Allen Paulos La prova matematica dell’inesistenza di Dio, appena uscito da Rizzoli - per dimostrare che Dio non esiste, naturalmente con prove matematiche alla mano del tipo: se moltiplico una pera per lo zero viene fuori un bello zero.

Ma il miracolo c’è. Dopo gli attacchi di Odifreddi abbiamo avuto invasioni di Babbi Natali, numerose come gli sbarchi dei gommoni a Lampedusa; le fiabe, perfino le più vecchie e noiose, sono diventate best seller; i prestigiatori si pagano al prezzo di Ronaldinho. La Santa Sede attende un sensibile aumento delle vocazioni.

Einstein diceva che i matematici devono tirare fuori le idee tra i 20 e i 23 anni, perché dopo il loro cervello è bruciato. Ci sembrava un’esagerazione: ricordo l’ansia dei miei compagni, iscritti alla facoltà di Matematica di fronte a questa sentenza di Einstein: avrebbero avuto pochissimo tempo a disposizione per giocarsi il tutto per tutto. Noi che studiavamo altre cose li consolavamo: «È un modo di dire per non perdere tempo», dicevamo, e invece, leggendo oggi Odifreddi, ci accorgiamo che quella di Einstein non era affatto un’esagerazione e che anzi, dopo aver ascoltato anche l’altro matematico, Paolo Giordano, bisognerebbe anticipare i tempi: è amaro ammetterlo, ma i cervelli dei matematici si bruciano in un battibaleno.

Bertrand Russell, grande matematico nei suoi verdi anni, ha resistito benissimo alla vecchiaia perché sapeva essere ironico, riusciva a scherzare su se stesso e le sue difese dell’ateismo non scomodavano la matematica. Odifreddi è invece il tipico girotondino: mentre Nanni Moretti alza nei girotondi il cartello con scritto «Abbasso Berlusconi», lui ne ha uno con scritto «Abbasso Dio», e distribuisce ai passanti volantini con la dimostrazione matematica della non esistenza di Dio.

Come fanno i ragazzi ad appassionarsi a questa matematica che sembra avere come scopo l’annientamento di Babbo Natale, l’abolizione delle fiabe e dei giochi di prestigio, la negazione di Dio spiegata in un volantino distribuito durante il girotondo con Moretti e Travaglio?

Oggi i giovani vivono in una cultura essenzialmente anti-crociana pur senza aver letto una riga di Croce. Nessuno sostiene più, come intendeva il filosofo Benedetto Croce, che le scienze sono forme di sapere senza conoscenza ma soltanto strumenti «utilitaristici» per «misurare» il mondo.

Il miracolo dell’esistenza del professor Odifreddi sembra anche una grazia che Padre Pio ha fatto a don Benedetto: la lettura dell’opera omnia del professore (si fa alla svelta: sono poche pagine) sta incoraggiando un’ampia rivalutazione del pensiero di Croce. Capire e misurare il mondo sono proprio due mestieri diversi.

All’università, quando il ’68 era un anno qualsiasi di là da venire, avevo come professore di logica matematica Ettore Casari. Un genio. Di notte andava a studiare all’osservatorio astronomico di Brera, di mattina studiava a casa sua, di pomeriggio veniva a fare lezione a noi, cinque o sei ragazzi. Nell’auletta, mentre spiegava e riempiva la lavagna di formule, aleggiava la sua ansia, la tensione, la volontà di ricerca dell’incontrovertibilità: da un momento all’altro ci aspettavamo che si sprigionasse dalla sua testa il grande teorema, il «teorema Casari». Poi era lui il primo a sorriderci sopra e a tranquillizzare noi ragazzotti spaventati dalla sua intelligenza. Con un teorema misuri il frammento di una realtà incommensurabile che, per provare a comprenderla, si può solo interpretare all’infinito.

Talvolta, però, è accaduto che sulla terra ci siano stati geni come Aristotele, Leibniz, Pascal che sono riusciti a misurare il mondo e a capirlo. Erano filosofi e matematici e hanno provato a raccontarci il significato della vita nel tempo finito e quella che, forse, ci attende quando il tempo si cancella nell’eternità.

Questo mondo ha conosciuto altri, un po’ meno grandi: Voltaire, Diderot, per esempio. Ce l’avevano con chi credeva nell’esistenza di Dio. Le loro riflessioni era profonde, argute, ironiche: irritavano altri filosofi e fedeli.

Però i loro libri erano letti e discussi con passione, perché innanzitutto sapevano scrivere bene e non prendevano in giro il lettore, liquidando un problema millenario di tutte le civiltà della terra con quattro banalità, per di più sgrammaticate.

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