Cinque serate, percorso netto per Diodato, che vince con Fai rumore. Secondo posto per Gabbani, terzo per i Pinguini tattici nucleari. Ogni Festival è una sorta di corso di laurea, con promossi e bocciati e ripetenti ed è stato così anche per la settantesima volta. Anche stavolta solo uno ha alzato le braccia al cielo ma in tanti hanno vinto. Elodie ad esempio, che ha fatto l'upgrade nel senso che con Andromeda (anche ieri sera) si è scollata l'etichetta di «one hit wonder», di artista che ha successo con progetti estemporanei, tormentoni estivi, brani radiofonici. Anche Pelù si è scollato un'altra etichetta, quella di rockettaro contestatore: il suo Gigante ha disorientato molti (me compreso) ma, mentre calavano le luci dell'Ariston, si è rivelato un'altra sfaccettatura inedita di una carriera lunga e simbolica. Per Alberto Urso il settantesimo Sanremo è stato un passaggio verso un altro Festival, quello che si gioca anche nei mercati anglosassoni, dove il belcanto è molto più raro che da noi e quindi più apprezzato.
Tutti loro ieri sera erano la maschera di questa edizione, musicalmente magari meno innovativa di quella precedente, ma più omogenea. Amadeus ha fatto ciò che aveva promesso: un Festival orientato alla musica che si ascolta in radio e che va forte in streaming. A dargli una mano inedita è stato senza dubbio l'interesse in crescita dei giovani. Fino a pochi anni fa, la stragrande maggioranza degli under 18 lo vedevano come una roba da vecchi e ne chiedevano l'imbalsamazione per il museo del Novecento. Invece adesso - e i dati streaming e social lo confermano - i ventenni (ma anche meno) ritrovano nel Festival ciò che ritrovavano i loro padri, ossia la vetrina del pop. Dopotutto artisti giovani come Raphael Gualazzi suonano musica senza età (Carioca) e artisti giovani cantano musica ultra contemporanea come Junior Cally, che è entrato al Festival da Papa viste le polemiche e ne è uscito da cardinale. Non ha vinto, ma ha convinto perché - per usare lo slang in tema - il brano spacca. Idem quello di Rancore, forse ancor di più di quello di Anastasio, che è stato fuoriclasse soprattutto nella cover con la Pfm che ha trasformato l'Ariston nell'Isola di Wight riveduta e corretta.
Il rap non ha sbagliato una mossa qui all'Ariston. E neppure quella che una volta si chiamava canzone d'autore: Masini è top (nonostante al brano manchi forse il refrain giusto), Levante forse non c'entra molto con Sanremo e anche Giordana Angi con un brano sulla mamma ha giocato una scommessa difficile da vincere. Enrico Nigiotti è stato più bravo nell'interpretazione che nella scrittura del testo. E poi Paolo Jannacci, che è un nc, non classificato: a prescindere dalla classifica, lui merita di più. Discorso a parte per Gabbani che non si sa dove metterlo: il testo di Viceversa è «d'autore», la sua performance è pop, la grinta è rock. Lui è uno dei vincenti di un Sanremo mai così musicale. Tiziano Ferro tra alti e bassi è stato un performer eclettico, la maggioranza degli ospiti ha cantato e non fatto spot ai propri film/fiction e nella finale persino Diletta Leotta è stata convincente con la sua «ciuri ciuri» sulla base di Lose yourself di Eminem. E se Amadeus ha dimostrato anche nella finale di avere il ritmo radiofonico di chi è cresciuto annunciando canzoni, su Sabrina Salerno non c'è nulla da aggiungere: non a caso farà presto un disco. Di certo, però, un corso di laurea come il Festival ha anche molti bocciati. Ad esempio Riki, apparso sempre fuori fuoco. O Zarrillo, che è passato indolore. Infine chi ha fatto gara a sé.
Elettra Lamborghini gioca il campionato estivo e ha un seguito impressionante (chiedere agli albergatori sanremesi). E poi Achille Lauro, la cui vera provocazione è far credere di non essere lucido quando in realtà lo è più di tutti. E questo Sanremo ha pure la sua firma.
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