Politica

Il direttore: «Chavez non è un mio problema»

VeneziaIl giorno dopo tutti vogliono sapere dal presidente Baratta se lo sbarco in forze al Lido di Hugo Chávez sia stato una grana, un infortunio, una patata bollente. L’ex ministro di centrosinistra, ora a capo della Biennale, non si scompone: «Di fronte a un ospite che viene alla Mostra io mi metto sulla passerella, gli stringo la mano e lo accompagno dentro la sala. In ogni caso Chávez non è una patata bollente per me, semmai lo è per Barack Obama». Insistiamo: qualcuno ha protestato per l’accoglienza riservata al caudillo venezuelano? «Non ho ricevuto telefonate da politici, se è questo che volete sapere. Del resto, quella di Chávez non era una visita ufficiale. Il regista ha ritenuto di doverlo invitare, tutto s’è risolto in una passerella. Magari avrei preferito farlo entrare in un’atmosfera più cinematografica. Se poi certe personalità dal forte potere concentrato sono viste come miti e non come problemi, be’ dipende da chi guarda, non dalla Biennale».
Sarà. E tuttavia questa Mostra molto engagé, tendente al rosso acceso, non solo negli arredi architettonici, continua a far discutere. Oggi tocca al «Grande sogno», il film autobiografico di Michele Placido ambientato nel Sessantotto, e di nuovo il discorso si sposterà dal cinema alla politica, con accluso dibattito sull’indimenticabile stagione. Intanto il governatore veneto accusa la Mostra di essere diventata «una scialuppa della sinistra». «Galan sbaglia», replica Baratta, affiancato da un Müller più taciturno del solito. «Non ci si può lamentare se il cinema affronta la realtà a muso duro. Cosa dovrebbe fare dopo un anno come il 2008? Con la peggiore crisi economica da molti decenni a questa parte, l’elezione di Obama, lo svilupparsi di tensioni internazionali, nel pieno di fenomeni migratori di complessa gestione. Di tutto questo la Mostra, che io vedo come una corazzata senza scialuppe, deve essere il primo momento di risonanza. È il suo compito acchiappare il cinema che riflette sulle lacerazioni del mondo».
Si finisce anche a parlare dei presunti esclusi. E di nuovo rispunta il fattore politico. Perché non ci sono «Barbarossa» di Renzo Martinelli e «La prima linea» di Renato De Maria? «Altre strategie d’uscita per il primo. Il secondo ha scelto di andare a Toronto.

Non si possono rimpiangere i film che non si sono visti», taglia corto Müller.

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