"Disciplina militare e determinazione. Così l'Inter 2010 sconfisse il Bayern"

Filucchi visse da dirigente la finale. "Mourinho, un carisma mostruoso"

"Disciplina militare e determinazione. Così l'Inter 2010 sconfisse il Bayern"
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«A un certo punto a tavola uno dei giovani della squadra cominciò a cantare Comment tu t'appelles? Je m'appelle Samuel Eto'o, la canzone che i tifosi del Camerun dedicavano a Eto'o. Io stavo per rimbrottarli, ma Mourinho mi prese per un braccio, come per dire lascia fare. Uno dopo l'altro a partire da Materazzi e alla fine tutti quanti si misero a fare il coro, picchiando con i cucchiai e le forchette. E tutto l'albergo di Madrird rimbombava di questo je m'appelle Samuel Eto'o, sembrava che venissero giù i muri. Il clima era quello».

Lui c'era, quindici anni fa. Stefano Filucchi ha vissuto dall'interno e da dirigente come l'Inter del Triplete visse la vigilia della finale di Champions contro il Bayern. Non ne ha mai parlato. Adesso il suo racconto aiuta a capire come i nerazzurri del 2025 si preparano ad affrontare a Monaco il remake della sfida al Santiago Bernaeu. Altro allenatore, altra squadra, altro avversario. Ma la stessa consapevolezza di affrontare un passaggio decisivo nella storia di un club.

Com'era, il clima all'interno? Più la tensione o più l'entusiasmo? «Una determinazione pazzesca. Io ho vissuto quella stagione accanto alla squadra, ero vicedirettore generale, andavo in panchina con loro nelle partite in casa come addetto all'arbitro e nella panchina aggiuntiva negli incontri in trasferta. In trasferta avevo vissuto il 17 maggio quella partita decisiva che fu la vittoria a Siena, con il gol di Milito che ci fece vincere lo scudetto. Da quel momento la sensazione del gruppo era che la vittoria della Champions fosse la conseguenza logica della vittoria in campionato».

L'atmosfera nell'albergo di Madrid, racconta Filucchi, risentiva della convinzione di essere lì a vincere. «Ricordo la cena alle cinque, prima di andare allo stadio. La squadra, Mourinho e il suo staff, io, Lele Oriali, Marco Branca e ovviamente il presidente Massimo Moratti. Alle cinque meno un minuto erano tutti già seduti. Per chi sgarrava anche di poco c'erano le multe, che poi capitan Zanetti raccoglieva e dava in beneficenza. Ma quasi mai servivano. C'era una disciplina quasi militare. Nessun ritardo ammesso, via i cellulari a tavola e in pullman». Mourinho era un sergente di ferro? «Aveva un carisma mostruoso, non gli serviva essere un sergente, anche perché aveva in squadra il gruppo degli argentini che tenevano in riga tutti. Anche i più indisciplinati all'esterno, i più guasconi, all'interno erano di una serietà irreprensibile. Tutti sapevano a memoria i tempi: i tempi per ridere, i tempi per lavorare, i tempi per pensare alla vittoria».

Era un gruppo rodato, consapevole della propria autorevolezza. «Quando sbucavano dal tunnel in campo sembravano un'armata, facevano paura anche fisicamente, una parte di loro rasentava i due metri. La vittoria di Barcellona in semifinale racconta bene la mentalità, dopo il fischio finale partirono chissà come gli idranti e noi tutti anziché arrabbiarci rimanemmo lì, a innaffiarci e a fare festa. Era la conferma della grandezza della squadra». La partenza per Madrid fu un inferno organizzativo, «la squadra viaggiava sul suo aereo privato, ma eravamo sommersi di richieste da tutto il mondo per essere presenti in qualche modo: a differenza di Monaco arrivare in auto a Madrid non è facile, ma c'è chi lo fece e anche chi viaggiò in aereo con quattro scali». Poi la vittoria, il trionfo in mondovisione, la gioia, le lacrime. «Qualcuno partì subito dopo. Io e pochi altri restammo in città. All'una di notte entrammo in un ristorante a cenare. Era ancora pieno e il pianista ci accolse sulle note di Volare. A Madrid non amano il Barcellona».

E adesso? «Di quella squadra rivedo la determinazione. È un po' meno rodata dell'Inter del 2010; ha avuto entrate recenti, ma ha fatto vedere grandi cose. Ha un presidente come Beppe Marotta che ha fatto un lavoro ammirevole.

Certo, per me l'Inter del triplete è legata in modo indissolubile a Massimo Moratti, un personaggio irripetibile nella storia del calcio italiano: per la sua generosità, per l'affetto che aveva per i calciatori, per la sua intelligenza. Di Moratti non ne fanno più».

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