Giuseppe De Bellis
Carta e penna. Jon scrive: dice che gli appunti vengono più veloci così, su un block notes. Cataloga: «Prima o poi serve tutto nel mio lavoro». Adesso il computer. Un orologio con il conto alla rovescia e la pagina bianca. Il discorso della vittoria di Obama l'ha scritto in un giorno: «Il cambiamento è arrivato. Questo è il nostro momento. Questo è il nostro tempo. Yes we can». Certo, ancora. Sempre. Queste sono le parole: di Obama e le sue.
Jon Favreau se l'è inventate la sera della prima sconfitta, in New Hampshire, l'8 gennaio, quando infilò alla fine del discorso il ritmo del ritornello. Quello lì: «Yes we can». Tre parole per una campagna, tre parole per la vittoria, tre parole per identificare un uomo e il suo messaggio. Non c'è niente di più bello per uno che fa lo speechwriter, per uno che sta in silenzio col suo computer a trovare la formula giusta per ogni frase. Ciascuna riga. Jon è l'uomo dei discorsi. Il ragazzo, anzi. Ha 27 anni. Obama affascina quando parla? Ecco dietro c'è lui, Jon, che scrive dietro le quinte, che trova la chiave, lo spunto, l'idea, sempre con il suo orologio puntato sulla deadline. «Tre minuti per riga, non di più». In aereo, in una stanza d'albergo, negli spogliatoi della palestra di un liceo.
Ovunque ci fosse un discorso di Obama, c'era Jon. Invisibile e fondamentale. Come a Chicago, nella notte della vittoria. Stanza 332 dell'Hotel Hyatt: ha dovuto accendere il pc e infilare di corsa la citazione del discorso di «resa» di McCain. Poi ha mandato e ha aspettato l'ok. Perché Obama legge, fa qualche correzione, poi chiama Favreau e chiudono la versione finale dello speech.
È così da tre anni, da quando Robert Gibbs, il capo della comunicazione dello staff di Obama, lo chiamò: «Puoi venire a Washington, ci serve uno scrittore». Si ritrovarono in tre, nella caffetteria del Senato. «Perché io? Il senatore ha scritto un libro che è un bestseller e un altro che sta per uscire». E Gibbs: «Perché se avessimo giornate di 48 ore non ci serviresti tu, invece purtroppo le ore sono soltanto 24. Allora ci vieni o no?». Dice Jon che quel giorno Obama non volle neanche vedere il curriculum. Solo una domanda: «Perché ti piace la politica?». Risposta: «Boh, è una passione».
Favreau non ha fatto né Harvard, né Yale, né la Columbia. Viene da un piccolo paesino del Massachusetts, ha studiato alla Holy Cross, l'Università dei gesuiti. S'è laureato nel 2003 e gli hanno trovato un posto da stagista nello staff della campagna elettorale di John Kerry che correva per la presidenza contro Bush.
È lì che l'ha conosciuto la prima volta Obama. Convention di Boston, Barack stava per fare il discorso più importante della sua carriera. L'aveva scritto da solo. Comparve sul gobbo del Fleet Center: «Scusi, dovrebbe cambiare una parola nella prima riga. C'è un refuso, non vorrei che facesse una figuraccia». Favreau se lo ricorda ogni volta. Soprattutto la faccia di Barack: «Guardò uno accanto a sé e disse chi è sto ragazzetto?». Adesso Jon è «Fav», il diminutivo con cui tutti quelli dello staff lo chiamano per fare in fretta. Anche Obama che un giorno gli ha pulito la scrivania: nel baseball Barack tifa per i White Sox di Chicago, Favreau per i Red Sox di Boston. Nel 2005, Chicago perse 3 a 0, allora il senatore si presentò con una scopetta nella stanza di Jon e gli disse: «Hai vinto, oggi lavoro io per te. Dove c'è da spazzare?». C'erano carte e lattine di Diet Coke ovunque. Perché Jon non lavora da solo, ha un piccolo staff di due persone: hanno 26 e 30 anni. «Il discorso più difficile? Non quello della vittoria. Forse quello dell'Iowa. La prima riga venne da sola: Dicevano che questo giorno non sarebbe mai arrivato.
Ventuno mesi. A letto alle due, sveglia alle 5. Blackberry in mano, sempre. Ora Washington. Sarà il capo degli speechwriter della Casa Bianca. Poco? A 27 anni non l'ha mai vista neanche da turista.
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