da Roma
C’è la guerra delle sezioni e dei gazebo. C’è il tentativo ulivista di mettere il discussione il «marchio» delle Feste dell’Unità, simbolo identitario troppo legato al passato e al Pci per identificare il nuovo che avanza. C’è il serrato dibattito tra gli azionisti del Partito Democratico su come distribuire il finanziamento pubblico all’interno della nuova holding partitica. Ma c’è anche un’idea che, sotto traccia, continua a farsi strada nelle menti dei dirigenti diessini: modificare l’articolo 49 della Costituzione, quello che disciplina i partiti come soggetti politici e recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
La formula, come è noto, è figlia del fascismo e in un certo modo anche dei timori dello stesso Pci togliattiano, in quanto prevedere un riconoscimento giuridico dei partiti da parte dello Stato avrebbe significato consegnare a quest’ultimo un enorme potere di selezione delle formazioni politiche. Una sorta di diritto di vita o di morte. Si decise così di finanziare i partiti senza riconoscerli, continuando a dribblare la possibilità che venissero sottoposti a regole giuridiche. Ora, però, i Ds sono pronti ad affondare il colpo e a riproporre con forza la questione. «È necessario affrontare in sede parlamentare l’attuazione dell’art. 49» scrive il tesoriere nazionale Ugo Sposetti nel marzo scorso. «È necessario un nuovo patto tra partiti e cittadini in virtù del quale i partiti adottino regole certe e trasparenti, rendendo pubblici bilanci e Statuti. Ricevendo in cambio un finanziamento nella forma di erogazione diretta di denaro o nella forma di servizi e agevolazioni». Esaurita la premessa si entra nel vivo della questione: «Negare o fornire in maniera inadeguata risorse alla politica significa colpire al cuore la democrazia, riproponendo l’antica discriminante della partecipazione alla vita pubblica secondo rigidi criteri di censo. In altre parole è l’idea che il più ricco avrà sempre maggiori chances di condizionare la vita di tutti».
Lo stesso tema viene riproposto nello scorso giugno. Nella relazione sul rendiconto l’attuazione dell’art.49 viene giudicata da Sposetti «ormai improcrastinabile». «Bisogna rilanciare la funzione dei partiti attraverso una disciplina giuridica che leghi la struttura democratica al finanziamento». Il messaggio cifrato e il pensiero laterale che sottende a questa insistenza può essere tradotto così: servono più soldi perché altrimenti si rischia di essere schiacciati da Forza Italia. Alla faccia dell’antipolitica, insomma, il finanziamento pubblico non solo non va limitato ma va addirittura rimpinguato. Magari legandolo alla «democraticità» interna, misurabile, ad esempio, con l’utilizzo delle primarie, una specialità del Botteghino. Non a caso già nella scorsa legislatura vennero presentate dai Ds proposte di legge sulla fissazione di regole per lo svolgimento delle primarie da incentivare attraverso un «premio» in termini di finanziamento pubblico.
La campagna di autotutela dei Ds, insomma, passa attraverso due mosse: fare argine a Forza Italia attraverso un rilancio del contributo pubblico. E, come già fatto a inizio estate, porre al sicuro il patrimonio del Botteghino in un luogo giuridico esterno al partito: la «Fondazione Duemila». I Ds, infatti, hanno posto con chiarezza il problema della «messa in comune» del loro patrimonio con quello della Margherita (patrimoni dalle dimensioni assolutamente sbilanciate a favore degli eredi del Pci). E per autogestire i propri beni e non farli confluire nel Pd hanno costituito la fondazione. Il Partito Democratico, insomma, dovrà affidare la propria fortuna esclusivamente ai rimborsi elettorali e ai contributi pubblici.
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