La disfatta ai mondiali colpo finale al mito della Francia che funziona

«Meno male che non siamo francesi». Parola, naturalmente, di un giornale inglese. Rivalità antica, si sa; un tempo imperiale ora folkloristica. Ma con un fondo di verità, sorprendente. Fino a poche settimane fa era risaputo che uno di grandi malati europei fosse proprio la Gran Bretagna, sommersa da un debito pubblico e privato stratosferico.
Ora ci accorgiamo che anche la Francia non è messa affatto bene. Sia chiaro: le cifre non sono catastrofiche come quelle inglesi e nemmeno come quelle italiane. Ma mentre noi italiani siamo abituati a convivere con l’emergenza e a non contare sulle istituzioni, per i francesi è il contrario. Lo Stato è tutto. Lo Stato funziona. È un Valore assoluto. Il simbolo della «citoyenneté» ovvero dei valori condivisi della République. Il cordone ombelicale tra gli eletti e il popolo.
Quando si rompe è dramma. Dramma Vero. Come nel 2005 quando esplose la rivolta delle periferie. Colpa degli islamici e degli immigrati, dissero allora. Falso, a dar fuoco alle scuole erano i figli degli immigrati, di seconda e terza generazione, che si sentivano francesi, ma che dalla Francia venivano rifiutati.
Poi venne Nicolas Sarkozy, nel 2007, il presidente della speranza, di un Paese orgoglioso delle proprie tradizioni, ma aperto alla modernità e all’integrazione. Prometteva, lui di origine ungherese e sorteggiato dalle élites parigine, di essere il presidente di tutti i francesi. Un grande coach, capace di amalgamare le differenze, come il Ct della nazionale Raymond Domenech al mondiale del 2006. Il sogno di Domenech è finito l’altro giorno, quello di Nicolas Sarkozy continua. Ma non è più un sogno. È un incubo; anzi, un calvario.
I sondaggi sono impietosi, la sua impopolarità ormai è cronica. E la crisi economica non fa che accentuare i limiti della sua personalità. Anziché proporsi come statista, alto, coraggioso, sul modello, sempre rimpianto, di De Gaulle - in versione 2.0, naturalmente - sembra percorrere la stessa parabola di Domenech. Un presidente nel pallone e che nel pallone cerca rifugio, forse un diversivo.
Sarkozy ieri pomeriggio ha riunito il governo per discutere la sconfitta ai mondiali e «capire le ragioni della disfatta dei Bleues». Con l’aiuto del calciatore più rappresentativo della nazionale, Thierry Henry, convocato all’Eliseo al pari dei ministri. De Gaulle, non lo avrebbe fatto. Ma uno spin doctor deve aver sussurrato all’orecchio del presidente che l’eliminazione, per quanto disastrosa, offriva un’opportunità insperata. Per distrarre l’opinione pubblica dai problemi del Paese, che sono tanti e gravi.
Questo è il punto. La Francia è malata. Il deficit pubblico è all’8,5% sul Pil e per rientrare nei parametri di Maastricht, l’Eliseo si appresta a varare una manovra da cento miliardi di euro. Sarkozy deve ridimensionare drasticamente quello Stato a cui ha giurato fedeltà assoluta per conto dei suoi elettori. Ma non ha il coraggio di ammetterlo. Entro il 2013 l’Amministrazione pubblica verrà ridotta di 100mila dipendenti, in buona parte insegnanti e funzionari pubblici, ma anche circa 10mila tra poliziotti e gendarmi; proprio lui che aveva promesso più sicurezza e lotta dura agli immigrati clandestini. Che naturalmente rimarrà sulla carta.
Come altre riforme. Quella delle banlieue, ad esempio. L’altro giorno cinesi e maghrebini si sono affrontati in un quartiere della capitale. Botte, violenze, auto incendiate. E nelle «Città dormitorio», poco è cambiato rispetto a cinque anni fa, al punto che persino un suo ministro, Fadela Amera, ha chiesto al presidente più coerenza, avvertendolo che continuando su questa strada, le periferie torneranno a bruciare. Sarkò ha preso nota e tutto è rimasto come prima.
Ovunque emergono problemi. Alcune banche francesi, come BnpParibas e Crédit Agricole hanno fatto incetta di titoli di Stato greci e vedono traballare il loro ranking. Un suo ministro, Eric Woerth, è accusato di aver aiutato Liliane Bettencourt, figlia multimiliardaria del fondatore di L'Oréal, a evadere le tasse, mentre gli economisti avvertono che la stangata, per quanto necessaria, indebolirà l’economia e dunque non permetterà la creazione di nuovi posti di lavoro.
Meglio, allora, parlare d’altro. Di calcio, ma non solo.

Il capo dell’Eliseo ha annullato il mega ricevimento all’aperto in occasione della Festa nazionale del 14 luglio. Costa troppo, ben 700mila euro. Il risparmio è irrisorio, ma simbolico. L’ennesimo diversivo di un presidente illusionista.
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