Laura Novelli
Tra i bravi registi della nostra scena, Massimo Castri appartiene senza dubbio al ristretto gruppo di quelli magistrali. Per il semplice fatto che il suo teatro, teso a scandagliare i tortuosi labirinti della coscienza e la crisi delluomo contemporaneo, persegue da sempre una coerenza tematica e stilistica non priva, però, di approdi spesso innovativi. Lo si è visto quando ha affrontato le opere di Pirandello, Goldoni, Ibsen e - ancor più - quando si è dedicato alla tragedia classica. Memorabili restano messinscene quali, ad esempio, la splendida Elettra con Galatea Ranzi (era la metà degli anni Novanta e il teatro Caio Melisso di Spoleto, lo ricordiamo come fosse oggi, risplendeva del caldo bagliore di una scenografia campestre che rivestiva lintera platea), o le intense Ifigenia in Tauride, Oreste, Ecuba. Titoli nei quali dovremmo ricercare le radici dellultimo lavoro del regista toscano, Alcesi di Euripide (traduzione di Umberto Albini), prodotto dagli Stabili dellUmbria, di Roma e di Torino e attualmente in cartellone al teatro Argentina.
Anche qui cè un esterno/interno a incorniciare i fatti: un prato verde brillante al centro del quale si apre una buca/tomba di terra (viene subito in mente limpianto scenico di Orgia di Pasolini, allestito nel 97) e intorno al quale si ergono porte e pareti regali che ne enfatizzano la lieve pendenza in avanti. Anche qui è Euripide, il più moderno, il più scettico, il più «petulante» dei tragici, a interessare il maestro. Ancora una volta parliamo di morte, amore e sacrifici; vediamo déi umanizzati (lApollo damerino e fabulatore di Milutin Dapcevic) ed eroi declassati (lEracle clownesco e macchiettistico di Paolo Calabresi). Ma in realtà sono tante le differenze tra questo nuovo lavoro e i precedenti. Differenze dettate proprio dal testo: una favola nera infarcita di mitologia e sapienza popolare che si risolve con un lieto fine (cosa assai stramba per una tragedia) e che addirittura sembra «usare» la morte come passaggio verso la vita, come momento di «catastrofe» teso al positivo. E allora il registro migliore su cui impostare recitazione e ritmo complessivo (a tratti forse un po lento) non potrebbe che essere il grottesco: mesto sì ma non troppo, ridicolo quanto basta ma mai disinvolto. Perché la morte cè, è il tema vero dellopera, e fa terribilmente paura. Basti seguire i sentimenti controversi di Admeto, il re di Tessaglia cui gli dèi hanno concesso di non perire purché qualcun altro lo faccia al suo posto: accetta che la moglie si sacrifichi per lui ma la decisione non è - non può essere - indolore. E ha ragione il bravo Sergio Romano a disegnarlo quasi fosse un bozzetto di umanissima fragilità, tutto nervi e modulazioni emotive. È vestito di nero come un uomo dinizio Novecento (lepoca di Ibsen, Strindberg, Kraus, Freud) e sembra unemanazione di quel coro di vecchi che entra adagio dalla platea sulle melodiose note di Arturo Annecchino cariche di pathos e pietas. Tanto più che un senso di gloriosa pietà ispira pure la figura di Alcesti (lottima Ilaria Genatiempo), vera eroina di questa storia funebre, qui fasciata come una mummia egizia, costretta a quel sacrificio damore che la lega mani e piedi alla tomba ma risarcita, alla fine, dal benevolo Eracle che, deus ex machina della vicenda, la salva dallAde per restituirla alla luce e al marito.
Repliche fino al 12 marzo. Info: 06.684000345.
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