Dispotico e dispettoso, il «divo Giulio» pubblicò opere immortali (senza leggerle) «Adoratore» di Stalin, alla fine cedette alla dittatura commerciale della tv

Dispotico e dispettoso, il «divo Giulio» pubblicò opere immortali (senza leggerle) «Adoratore» di Stalin, alla fine cedette alla dittatura commerciale della tv

Giulio Einaudi era un Principe, e come tutti i Principi schifava i cortigiani di cui amava circondarsi.
Fra i tratti del suo bizzoso carattere spiccava la ricerca spasmodica della devozione servile, in cui si distinse un branco di leccazampe sempre in lite tra loro per conquistare i favori dell’Editore dal quale ricavarono soprattutto disprezzo. Anaffettivo sul fronte familiare, non aveva amici su quello professionale. Per lui erano tutti dipendenti.
Dispotico e dispettoso (dava appuntamento al suo chauffeur alle 8,27 sotto casa, ma poi scendeva prima per il gusto di farlo sentire in ritardo), il divo Giulio amava ostentare la propria supremazia sugli autori rubacchiando loro il cibo dal piatto. Così come godeva nell’esibire la propria (incontestabile) ignoranza quando scambiava impunemente una chiesa del tardo Ottocento per una cattedrale barocca. Aveva sempre ragione lui, e gli altri digerivano tutto. Spiritus durissima coquit.
Editore di migliaia di libri che sfogliava appena - si dice che, interi, ne abbia letti una decina in tutta la vita - dava del tu a tutti, i quali tutti gli si rivolgevano ossequiosamente con il Lei. Giovane scapestrato figlio di papà (e che papà!), narciso dall’orgoglio stratosferico e dalla curiosità pettegola, il Principe - del quale tra pochissimo si celebrerà il centenario della nascita: Dogliani, 2 gennaio 1912 - era un uomo portato per temperamento a comandare. La sua fu una formidabile monarchia culturale fondata sul principio della qualità (secondo lui) o dell’ortodossia ideologica (secondo gli altri).
Un gigante quando pubblicava col marchio dello Struzzo pagine insostituibili della storia del pensiero, nella speranza che la cultura potesse diventare un patrimonio comune, si trasformava in un bambino viziato quando aizzava i suoi collaboratori gli uni contro gli altri per provocare proficui scatti delle intelligenze (diceva lui) o per un sadico gusto della rissa (dicevano gli altri).
Era un senza-cuore, ma di talento. I suoi autori li pubblicava ignorandoli - dava il meglio della sua perfidia quando, incontrandone uno, lo salutava con un insistito «Oh, ecco il nostro traduttore...» e magari era Sebastiano Vassalli, che non ha mai tradotto una pagina in vita sua - oppure li umiliava. Come quella volta che, alla presentazione della celebre Letteratura italiana, si rivolse per tutta sera al curatore Alberto Asor Rosé. Tutti gli altri li ignorava e basta. Ai giornalisti, che considerava l’ultimo gradino della scala evolutiva, concedeva solo il silenzio. Quando L’espresso nell’ottobre ’78 pubblicò un servizio sulla vicenda dell’edizione critica Colli-Montinari delle opere di Nietzsche bocciata dall’Einaudi e che poi Luciano Foà pubblicò con Adelphi, quel giorno il Principe entrò in via Biancamano zittendo tutti con la sua vocetta nasale e beffarda: «Oggi l’Espresso non è uscito».
Antifascista, perseguitato dal regime insieme agli amici Ginzburg e Pavese, accusato da Benedetto Croce nel ’46 di «propaganda russo-bolscevica», per sua stessa ammissione «adoratore» di Giuseppe Stalin, Giulio Einaudi, pur senza avere la tessera del Pci era fraterno amico e solerte esecutore della Tessera Numero Uno. Tanto che leggendo il famigerato carteggio «zdanovista» uscito dagli archivi di Botteghe Oscure nell’93 si ha l’impressione che Togliatti sia il direttore editoriale dell’Einaudi e Einaudi un dirigente del partito comunista. Nelle cui sezioni, peraltro, infilava le sue librerie.
Braccio armato del gramscismo, custode dei valori Resistenziali e rivoluzionario intellettualmente estremista («A parte Calvino, sentivo all’Einaudi un’aria da libretto rosso», diceva Citati, peraltro poco amato in via Biancamano), il Principe fu per un cinquantennio il vero Nume editoriale della Sinistra. Pubblicò Grandi Opere ma impose pure saggi terribili che grondavano il peggio dello stalinismo. Ci fece conoscere autori straordinari, ma anche ne rimosse alcuni (l’edizione epurata dei Minima moralia di Adorno, la bocciatura di un Fofi eretico...). Editò i Quaderni dal carcere di Gramsci (impostigli da Togliatti, bisogna aggiungere) ma a fine corsa ci somministrò pure i Biamonti e i Tabucchi. Ma ormai non era già più l’Einaudi di una volta... Altro che quella berlusconiana. Da Vittorini&Calvino si era già passati a Gino&Michele.

E da Bobbio al Gabibbo, come quando, dopo aver evitato la televisione per tutta la vita, l’Editore apparve in T-shirt e mutande a Striscia la notizia confessando di essere un fan di Ricci, scatenando l’ira dell’intellighenzia progressista. Che aveva visto il Principe trasformarsi in giullare.

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